domenica 18 dicembre 2011

Nemico, amico, amante - Alice Munro

Nove racconti in cui le protagoniste sembrano figure sospese tra passato e futuro, in uno spazio atemporale e nello stesso tempo finito e reale. La scrittura della Munro solo apparentemente dai toni lievi e quasi dimessi, mette in luce microcosmi ordinati ed in perfetto equilibrio destinati a mutare e ad evolversi in tutt’altra direzione. Lo stile asettico, privo di sentimentalismo e denotato da sostanziale oggettività, affine al romanzo naturalista, può ricordare quello di Flaubert e soprattutto di Cechov; in particolare la Munro eredita l’amore per il minimalismo della trama, spesso povera di avvenimenti e incentrata principalmente sul momento epifanico e sul dettaglio rivelatore.
La descrizione di ambienti e protagonisti, inevitabilmente intrisi di normalità, finisce per straniare chi cerca una logica quadratura degli eventi e si trova trascinato in percorsi alternativi, frutto della naturale complessità dell’esistenza e dell’immaginario umano. Quando si pensa di aver compreso lo spirito di un personaggio, una battuta o un gesto qualsiasi stravolgono l’intuizione iniziale. Tutto si perde e prontamente si dissolve, vanificando ogni tentativo di restaurare l’equilibrio originario. L’aura di mistero, questa difficoltà di comprendere il vero senso della storia e dei personaggi, rappresentano il nucleo da cui scaturisce gran parte del fascino di questi racconti, quasi l’autrice dichiarasse apertamente di voler rendere controverso il rapporto col suo lettore. Sono volti, corpi, odori, piccoli particolari a scomporre la linearità degli eventi, stravolgere la prospettiva dei fatti, alterare un mondo quotidiano fatto di doveri, sottili menzogne e latenti dolori. Il ricordo, sottolineato dal sostenuto uso del flashback, si configura come elemento di rottura, avvenimenti passati secretati volontariamente in qualche remoto angolo della coscienza escono alla luce in tutta la loro essenza e imprimono una svolta effettiva alle esistenze.
La Munro non si dilunga in cornici o ampie introduzioni, i personaggi sono descritti con pochi tratti concisi e determinati, a parlare sono i fatti stessi, la forma asciutta e priva di inutili preamboli è nello stesso tempo elegante e non tralascia particolari essenziali. Il paesaggio e la natura del Midwest fanno da sfondo alle emozioni dei personaggi; ma se gli eventi sono tutti ambientati nel natìo Canada, molto più vaga e rarefatta è la collocazione temporale: oscillando fra ciò che è e ciò che è stato la Munro sembra piuttosto voler mostrare ricordi e sensazioni di vite realmente vissute con valenza universale, come universali sono le tematiche della vita familiare, di quella matrimoniale, delle relazioni amicali, della malattia e della morte.

Virginia Cassandra

Virginia Cassandra 

domenica 4 dicembre 2011

Novembre: Affari spenti - Playlist Novembre 2011





1 - How you feel - Fat Jon
2 - Good day today - David Lynch
3 - Look at stars - SBTRKT feat. Sampha
4 - Ratatat - Wildcat
5 - Farewell to Wendo - Mock & Toof
6 - House Wigger - Junk Science
7 - Fall in l0ve - Flying Lotus
8 - Come on let's go - Broadcast
9 - Billie Holliday - Warpaint
10 - Confetti - 1,2,3

giovedì 3 novembre 2011

Ottobre - Bilanci



My Very Personal Album Award 2011

#1 Et vous, tu m'aimes? - Brigitte - Wagram Music/ 3ème Bureau
#2 English Riviera - Metronomy - Because Music
#3 Happy Soup - Baxter Dury - EMI UK
#4 Buffalo - The Phoenix Foundation - Memphis Industries
#5 Fill The Blank With Your Own Emptiness - Le Prince Miiaou - Wagram Music
#6 Shangri La - Yacht - Universal Music AB
#7 Forever Today - I'm From Barcelona - EMI Sweden
#8 Valhalla Dancehall - British Sea Power - Rough Trade
#9 Paradise - Slow Club - Moshi Moshi Records
#10 Forever Dolphin Love - Connan Mockasin - Phantasy/Because Music
#11 Perfect Darkness - Fink - Ninja Tune
#12 SBTRKT - SBTRKT - Young Turks
#13 Human Octopus - Cascadeur - Universal Music/Polska SP. Z.o.o.
#14 Smother - Wild Beasts - Domino Recording Co.
#15 Portamento - The Drums - Universal Music International Division
#16 James Blake - James Blake - Universal Music
#17 Ritual Union - Little Dragon - Peacefrog Records
#18 Spellbound - Jay Jay Johanson - Universal Music
#19 Initiale - L (Raphaëlle Lannadère) - Tôt ou Tard
#20 Listen To Your Leader - Neo Retros - Sony Music Entertainement

          

martedì 11 ottobre 2011

Bref, di Kyan Khojandi & Navo


Insomma, Marla è una con cui mi vedo. Un giorno mi fa: "tu non sei come tutti gli altri.." Non ne sono tanto sicuro perchè, come tutti gli altri: Quando mangio il tiramisù, tossisco per colpa del cioccolato in polvere, ho già inviato una seconda mail con nell'oggetto "con l'allegato è meglio!", ho già smontato una molletta da bucato, mi sono già frugato le tasche dicendo "mi spiace, non ho monete", sperando che le mia chiavi non facessero rumore, mi serve un'ora per rimettere il copri-piumino, ho già cominciato i labirinti dei giornalini dalla fine, ho soffiato su qualcosa che era caduto per terra prima di mangiarlo, ho già messo dell'acqua a bollire, l'ho dimenticata, l'ho rimessa, l'ho ridimenticata, l'ho rimessa ancora, mi sono fatto un tè e ho dimenticato di berlo, mangio senza volerlo la carta dei panini, la plastica degli involtini primavera e l'alluminio del cioccolato, a casa ho una scatola di caricatori di cellulari che non mi servono più, ho già odorato i miei calzini per sapere se potevo rimetterli, faccio sempre troppa pasta, mi prometto di smettere di fare troppa pasta, allora metto meno pasta e non mi basta, ho 15 "Vale" e 11 "Peppe" in rubrica, ho detto di aver sentito parlare di qualcosa di cui non avevo mai sentito parlare, non conosco la mia taglia dei pantaloni, ho decine di mezze bottiglie d'acqua accanto al letto ma non oso più berle, conservo sempre le ricevute quando pago con la carta di credito per paura che mi rubino il numero ma non ho mai controllato se sulla ricevuta c'è il numero, mi sono chiesto se c'era una telecamera nel bagno di casa dei miei amici, non so mai quale bottone del citofono apre la porta allora li schiaccio tutti, ho già messo una chiave USB prima in un senso, poi nell'altro, poi nell'altro ancora, mi sono detto che sono come tutti gli altri, allora come tutti gli altri ho risposto: "Certo che no.. io non sono come tutti gli altri.."


Bref, di Kyan Khojandi & Navo

Traduzione di: Carlo Ligas

 

giovedì 29 settembre 2011

Settembre, Meridiani & Paralleli - Playlist Settembre 2011




1.   W'Happy Mama - Zap Mama
2.   Get Out Da Way - Youngblood Brass Band
3.   Somewhere Else To Drive - Los Disidentes Del Sucio Motel
4.   Two Cousins - Slow Club
5.   Claire - Baxter Dury
6.   Dounia - Rokia Traoré
7.   Home Is Where It Hurts - Camille
8.   Simmerdown - Nostalgia 77 feat. Josa Peit
9.  Other Lives - Tamer Animals
10. Trejeitos - Jun Miyake, Arto Lindsay & Zeno Ishida   

lunedì 19 settembre 2011

Habemus Papam, di Nanni Moretti - 2011

Fumata bianca. Decisamente, indiscutibilmente bianca. A dispetto di quanto ci si potesse aspettare, il Maestro affronta quello che entrerebbe di diritto nella cerchia dei nemici storici, per mera semplificazione bipolare o per più sottili tematiche affrontate in tempi più che sospetti, senza fare ricorso alla veemenza già prodigata al momento di mettere in discussione l’altro Totem sociale, quello civile, allora, senza quegli affondi che crudelmente avevano sviscerato la figura politica protagonista de “Il Caimano”. Resta certo perfettamente apprezzabile la fine strafottenza con la quale Moretti varca i confini inviolabili di un mondo agli antipodi del suo, del nostro, un mondo agli antipodi del mondo, recintando però furbescamente il film di un’aurea di tenerezza forse più inattesa che inconsueta. Sono gli strumenti stessi di Santa Romana Chiesa che il regista utilizza in questa sua scorribanda che ha piuttosto il passo della gita domenicale. E’ in primis il concetto di ascensione, pilastro della dottrina, senso unico in direzione della vita eterna, ad essere demistificato in un continuo senso alternato tra sacro e profano, divino e umano, terreno: questo saliscendi senza forzature riesce candidamente a mostrarci l’umanità più intima di un pugno di uomini, tutti papabili, che scivolano dall’alto della loro porpora giù nelle loro più profonde paure carnali, che nei loro pensieri rifiutano, scongiurano, la loro elezione, la sublimazione del loro mandato e della loro vocazione.
Scopriamo, ripartendo dalle paure umane per ritornare verso l’alto della materia divina, le prime tracce della depressione perfettamente dipinte nella Bibbia, per ridiscendere poi a picco nella noia materiale di uomini ormai liberati dal rischio ma costretti ai passatempi più popolari per sciogliere il loro dovere di presenza in un soggiorno obbligato da rendere quantomeno tollerabile. Questi repentini cambi di atmosfera sono sapientemente gestiti dal burattinaio Moretti, tanto dal regista quanto dal personaggio interpretato, che schernisce definitivamente la sacra istituzione ecclesiastica facendole pagare un ennesimo dazio alla storia, obbligandola a subire uno smacco umiliante, costringendola a fare ricorso ad uno strumento tra i più simbolici della modernità, quale la psicanalisi, che rimpiazza con l’uomo ed il suo inconscio la posizione centrale del Divino, rendendola così remissiva quando non trova altra via se non quella di rimettere alla scienza il suo pastore supremo.
Questo avviene tramite un ulteriore appropriazione da parte dell’autore di un elemento secolarizzato della pratica del credo, la confessione, sommessa prima, umanissima ammissione con lo sguardo nel vuoto del passato da parte del pontefice in pectore di aver soppresso una ben differente vocazione che lo possedeva in giovane età, confessione sostenuta nella sua antropica naturalezza da una notevole recitazione di Piccoli, folgorante e puerile allo stesso tempo, adagiata delicatamente su di un rocambolesco parallelismo con Čechov, palesata poi “apertis verbis” in una pubblica ammissione di piazza. Restano lievissime ombre, a voler stigmatizzare da un punto di vista più tecnico il film, lasciate impercettibilmente da un montaggio ripetitivo e scollato delle scene di massa, sicuramente dovuto a delle riprese di non semplice messa in opera sul sagrato di quei luoghi spaziali così protetti invero, meno protetti d’altronde di quelli comuni derisi bonariamente nella narrazione.

Voto: 7
Carlo Ligas
 

domenica 11 settembre 2011

Baby's got bass - intervista a Esperanza Spalding


Il contrasto tra l’Esperanza Spalding che potete vedere sul palco e quella della vita di tutti i giorni non si percepisce immediatamente, incontrandola a colazione, all’indomani del suo concerto sold-out all’ International Jazz Festival di Montréal. Sul palco è luminosa, un esuberante accordo maggiore, fluttuante dietro al suo basso all’ impiedi, gli occhi chiusi mentre canta rivolta verso le luci, un’ evangelista della gioia in varie metriche. Al mattino, invece, ci è apparsa più pacata e contemplativa, quasi schiva. Solo pochi minuti da dedicarci, a causa di un imminente volo per Parigi, poi Praga, poi Montreux, in Svizzera, dove vecchi e nuovi appassionati di jazz già fanno carte false per accaparrarsi un biglietto per assistere al suo concerto, in cui interpreterà Chamber Music Society, l’album che le è valso il primo Grammy come migliore rivelazione mai assegnato ad un(a) musicista di jazz in purezza.

“Mi scusi, ma è stata fenomenale ieri sera.. - le dice una donna seduta al tavolo accanto – insomma.. meravigliosa!” – “Oh grazie!” risponde lei, quasi sorpresa. E’ degna di nota, Esperanza, in quella sala dell’hotel Hyatt’s, forse non tanto per quei capelli che la caratterizzano, legati in un’ elegantissima sciarpa, quanto per il suo sorriso, molto più zen di quanto ci si possa aspettare da una ventiseienne. Quando la fan è uscita di scena, lei ha scosso la testa: “insomma.. non so cos’altro dire..”. “Ieri sera è stata una ventata d’aria fresca, se capisce cosa intendo..” aggiunge Leo Genovese, il suo pianista, che intanto ci ha raggiunti. Il concerto si è aperto con Little Fly, un poema di William Blake che la Spalding ha messo in musica; è il pezzo principale dell’album, comincia con un violino che pettina le corde di seta del suo basso mentre il suo cantato non potrebbe essere più lieve. Il pubblico si è poi letteralmente liquefatto durante l’ emozionante Inùtil Paisagem, una composizione di Antonio Carlos Jobim che Esperanza canta in portoghese. Ad un certo punto ha chiuso gli occhi; “riesco a concentrarmi meglio sui suoni quando il mio cervello non deve dedicare energia alla vista..” dice. Due bis, poi il meritato riposo della band dietro le quinte.


“Ecco la mia famiglia brasiliana! – dice lei, raggiante, nel back stage – adesso sì che ci sono un sacco di capigliature bizzarre!”. Con “famiglia brasiliana” Esperanza intende la famiglia di Milton Nascimiento, il leggendario vocalist brasiliano, presente nel suo album. 
Quindi baci e abbracci e chiacchiere fino a notte inoltrata e al mattino, al momento di fare i bagagli, è insolitamente svogliata, pigra. Ritardando ulteriormente ciò che dovrebbe fare, è salita sulla terrazza all’ultimo piano dell’hotel, ed è lì che abbiamo potuto scorgere meglio “l’altra” Esperanza. Vestita di nero, con le sue lunghe braccia da bassista aperte nel vuoto, ad un angolo della terrazza, col suo sorriso quasi mistico, come un albero maestro che conduce il folle veliero del jazz, in un glorioso mattino di Montréal, poco importa la direzione. Non che sia sempre così tranquilla, specie se è un po’ su di giri: “Nessuno ha il coraggio di dirmelo apertamente ma qualcuno nell’ambiente jazz non crede che il mio sia del vero jazz” si lascia scappare; “credo derivi dal vecchio pregiudizio che se una cosa è popolare, allora non è jazz”. Ma lei lo è. Il suo suonare, classicamente articolato, somiglia al suo cantare: leggero e deciso, incurante di disegnare forzatamente una melodia che definisca la felicità. Pratica lo scat, quella vecchia forma di improvvisazione vocale, così “ventesimo secolo”, fatta di parole senza senso, che i giovani che l’ hanno vista soffiare il titolo di miglior artista rivelazione del 2010 a Justin Bieber devono aver preso per una nuovo tipo di virtuoso cinguettìo. 


Fermo restando che la Spalding non è una che fa rumore, che si mette al centro dell’attenzione: è piuttosto il tipo di persona che si rilassa con le faccende domestiche, pulendo casa, o meglio, case, una nel West Village, l’altra a Austin, profondo Texas. E sappiate che non è sbucata dal nulla: ha lavorato dietro le quinte per la sua intera vita da adulta. E’ cresciuta in un quartiere difficile di Portland, Oregon, frequentando poco la scuola ufficiale ma molto la Northwest Academy. “La nostra vita è determinata da circostanze, incastrate tra belle e brutte esperienze”. Ricorda i suoi primi approcci con la musica, gli album di Belafonte e Stevie Wonder “Li riascolto spesso, specie sotto Natale”. Ricorda sua madre, ragazza madre, di due figli. “Cantava per ogni cosa: quando cadevo, se mi facevo male, se avevo fame, per ogni circostanza mi cantava una canzone. Ogni volta che salivamo in macchina la radio era accesa”. Alla fine, la giovane studentessa di violino strappa un diploma superiore e si iscrive alla statale di Potland, dove suona basso. A Portland, la Spalding era sotto la tutela di Thara Memory, compositore e trombettista che ha suonato con il meglio della seconda metà del secolo scorso, da Dizzy Gillespie ai Commodores. Vince una borsa di studio per il Berklee College of Music di Boston. Nel 2008 il suo album Esperanza viene accolto molto calorosamente da pubblico e critica. Nel 2009 incide Chamber Music Society, un disco che spazia dagli arrangiamenti orchestrali di Gil Evans fino al pop di Bobby McFerrin. Alcuni commenti: John Schaefer disse: “Rappresenta appieno la nuova mescola di generi che fino ad ora non riuscivamo a considerare se non separatamente” – “E’ incredibilmente intelligente, sono più vecchio di lei di un’ intera generazione eppure imparo qualcosa ogni volta che le sto accanto” Lyne Carrington, batterista preferito di Herbie Hancock, che l’ha accompagnata in Chamber Music Society. 

Esperanza è molto critica a riguardo delle sue capacità musicali: “So di non essere un mostro di abilità in quello che faccio. Mi considero ancora una stedentessa. Ho raggiunto un certo livello di efficenza ma certe cose non vanno ancora. La cosa però non mi sconvolge, sono giovane”. Come ricevere un Grammy per un CD jazz semi-sperimentale, il secondo disco del doppio prodotto? Esperanza ci spiega: “Tutto era stato stabilito circa due anni prima, volevo fare un doppio album, un disco con i pezzi più da radio, quelli più cantabili, più accattivanti.. nell’altro invece solo pezzi più sperimentali, più azzardati. Quest’ultimo però fu inciso e diffuso per primo. Credo che a quel punto la mia etichetta pensò che realizzare l’altro sarebbe stato uno sbaglio. Mi sono detta <<almeno andremo in Europa a suonare in qualche Festival>>”. La sua definizione di pezzi da radio è escatologica: “Immaginate un pezzo che fa strabuzzare gli occhi ad una quattordicenne che mastica chewing gum mentre è in macchina con la sorella..” Ci piace immaginarlo anche un po’ venato di jazz, quel pezzo. Qualcosa ispirato da Court & Spark, l’album di Joni Mitchell che annovera la presenza di David Crosby, Graham Nash e Joe Sample al piano. Un pezzo vagamente Stevie-Wonderesco e infatti, sebbene la Spalding sia un’eccellente autrice, una delle sue reinterpretazioni preferite è Overjoyed. Ha anche presenziato al concerto in onore dello stesso Wonder, nonchè alle celebrazioni per l’assegnazione del Nobel a Barrack Obama, live in the White House. “Il presidente è stato gentilissimo, ci tengo a sottolinearlo”. Le piace aprire i suoi show con qualcosa di plateale: a Montreal, poco prima che il sipario si aprisse, si è accomodata in una sorta di salotto predisposto per l’occasione sul palco. Davanti al pubblico poi, ha sorseggiato un bicchiere di vino, si è tolta le scarpe e si è incamminata verso il suo strumento ed il microfono, mentre le luci conferivano un alone celestiale ai suoi capelli free style. “Mi piacciono le aperture un po’ eccentriche, sofisticate. Parto dal presupposto che per la maggior parte delle persone andare ad un concerto rappresenta la parte finale della giornata, ed inoltre è insito nel titolo stesso dell’album, la musica da camera è quella che si ascolta in un ambiente privato, perciò faccio un po’ come a casa mia, mi tolgo le scarpe ed il cappotto, mi verso del vino..”. Ad un certo punto ha tirato fuori il braccialetto rosso, suo marchio di fabbrica. “L’ho preso in un negozio ad un angolo del mio quartiere. La titolare mi ha detto che in Tibet si pensa che il corallo porti successo e felicità, ma non tutti possono permetterselo. Allora usano il vetro. Questo è quindi un amuleto per gente povera, ne regalo uno a tutti i miei amici”.


Della sua vita privata si conosce ben poco, solo che non è certo una da notti selvagge in città: “non sono quel che si direbbe una festaiola, al massimo dei concerti o un cinema”. Oppure a casa, dice, su Skype con gli amici o persa tra le sue letture, attualmente Staying Alive dell’eco-femminista Vandana Shiva e i poemi di Emily Dickinson. “Sono piuttosto introversa, è vero, ma amo la mia compagnia, la mia propria identità, il me personale. E’ così che la mia vita corrobora la mia musica”. Durante la settimana dell’incisione del suo album, in febbraio, passava le sue serate in un locale di Times Square, l’Iridium Jazz Club, a suonare il basso nelle performance di Mike Stern, un chitarrista possente che negli ’80 suonava con Miles Davis. Stern era felice di suonare con Esperanza e l’incitava a sentirsi libera di suonare a suo piacimento, lei che per rispetto preferiva restare più defilata, sul palco come negli arrangiamenti. “Ha un controllo del tempo meraviglioso, amo il suo suonare elettrico, ogni volta è un vero evento”. Mentre Stern improvvisava, la Spalding cantava e suonava e il pubblico sembrava svenire di piacere. “Io ne ero rapito ancora prima di salire sul palco con lei – prosegue Stern – mi ha parlato di Bach, mia madre suonava spesso Bach in casa, quand’ero bambino. Mi ha suonato una fuga in particolare, ma non la riconoscevo. Poi, simultaneamente alle note che faceva col suo basso, ha cominciato a cantare gli alti, cosa che, credetemi, è una vera prodezza. E’ speciale, mi ha davvero scioccato. E’ fantastica”. 


Robert Sullivan, International Herald Tribune Style Magazine


Traduzione di Carlo Ligas

mercoledì 31 agosto 2011

Agosto, il mese più freddo dell'anno - Playlist




1. We Know All About U - Ebony Bones
2. Disco Monster - Le Le
3. Jique - Brazilian Girls
4. Ritual Union - Little Dragon
5. No One DoesIt Like You - Departement Of Eagles
6. Last Year's Disco Guitars - Bishop Morocco
7. Hewlett's Daughter - Grandaddy
8. Lost At Sea - Cashier N° 9
9. Cobalt Cheeks - Kai Fish
10. Better Times - Beach House

sabato 27 agosto 2011

For My ☮ld Battered Soul - Playlist



  1. Isaac Hayes - Hyperbolicsyllabicsesquedalymistic
  2. Harlem Underground Band - Smokin' Cheeba Cheeba
  3. Marlena Shaw - Woman Of The Ghetto (Live Version)
  4. Space Invadas feat. Spacek - Imaginist
  5. Gary Burton & Makoto Ozone - Afro Blue
  6. Outkast Feat Slick Rick - Da Art Of Storytellin
  7. Big Boi feat. Sam Chris - The Train Pt. 2
  8. People Under The Stairs - The Breakdown
  9. MFSB - Love Is The Message (Danny Krivit Re-Edit)
  10. Sabu Martinez - Afro Temple
  11. Labi Siffre - I Got The
  12. Gladys Knight & The Pips - If I were Your Woman
  13. Booker T. Jones - Representing Memphis
  14. De La Soul - Say No Go
  15. Love - Everybody's Gotta Live (DJ Catalist Remix)
  16. Michael Jackson - I Can't Help It (Tangoterje Remix)
  17. Arthur Russell - In The Light of The Miracle
  18. David Byrne & Caetano Veloso - Dreamworld
  19. Kid Cudi - 50 Ways To Make A Record
  20. Curtis Mayfield - Give Me Your Love

venerdì 26 agosto 2011

Funk“☮”delic - Playlist


                              

  1. Calvin Harris - Merrymaking At My Place
  2. Bibi Tanga & Le professeur Inlassable - It's The Earth That Move
  3. Dj Gruff - Sulle Trombe
  4. James Brown - People, get up and drive your funky soul
  5. Sharon Jones & the Dap Kings - Keep On Looking (Kenny Dope Remix)
  6. La Fine Equipe And Mattic - Freak The Funk
  7. George Clinton feat. Prince - Paradigm
  8. Mr Flash - Radar Rider
  9. Beastie Boys - Shambala
  10. Wendy & Lisa - Are You My Baby? (My Man's 12")
  11. The KDMS - Tonight
  12. Al Hudson & The Soul Partners - How Do You Do
  13. Matthew Dear - Don And Sherri
  14. Boxcutter - Panama
  15. War - The World Is A Ghetto (Special Us Disco Mix)
  16. Prince - It's Gonna Be A Beautiful Night (live)
  17. B.T. Express - Do It 'Til You're Satisfied (Long Version)
  18. Kokolo - Mind Power
  19. Van Hunt - Highlights
  20. Gal Costa - Vou Recomeçar

domenica 7 agosto 2011

Eric Emmanuel Schmitt: “L’avarizia è un rifiuto della condizione umana”


Per il romanziere e drammaturgo, autore, tra gli altri, di La parte dell’altro e Ulisse da Baghdad, l’avarizia forvia l’uomo dalla corretta direzione della vita. Sola maniera di guarirne: leggere Aristotele, Seneca, Pascal e Nietzsche.

- Sulla scala dei peccati capitali, a che altezza piazzerebbe l’avarizia?


La piazzerei molto in alto, perché è un peccato dal quale ne scaturiscono molti altri. Gregorio Magno parlava dei “sette figli dell’avarizia”: il tradimento, la frode, l’inganno, lo spergiuro, l’inquietudine, la violenza e la durezza d’animo. L’avaro in effetti strumentalizza gli altri, ai quali nega la parvenza di umanità e che rappresentano solamente, ai suoi occhi, l’occasione di alimentare il suo vizio. L’avarizia porta a quello che considero il più grave dei mali: l’indifferenza.

- Istintivamente, quale figura reale o immaginaria le suscita la nozione di avarizia?

Uno zio, che era talmente avaro da pulirsi le scarpe sullo zerbino del vicino! Nella sua vita tutto era così. Freddo come la cenere, viveva ogni festa familiare come un’aggressione perché gli toccava “spendere” del tempo, “dare” un po’ della sua vita, e tutto ciò gli era insopportabile. Spesso lo dimentichiamo ma l’avarizia è anche spirituale e psicologica, oltre che finanziaria.

- L’avaro è una delle figure principali della letteratura e del teatro, da Plauto a Molière, passando per Shakespeare. Quali sono i personaggi che le sono rimasti più impressi?


Ce ne sono tre: L’Arpagone di Molière, Père Grandet di Balzac e Scrooge del Cantico di Natale di Dickens. Nessuno nel XX secolo, perché, a parte Zio Paperone, che difficilmente viene considerato un personaggio della letteratura, la figura dell’avaro diventa rara nei romanzi e nel teatro a partire dalla fine del XIX.


- Per quale ragione?

Gli scrittori sono il prodotto ed il riflesso della loro epoca. Ora, la fine del XIX secolo è marcata da due fenomeni concomitanti: la de-cristianizzazione della società e lo sviluppo del capitalismo industriale. Dal momento in cui le nozioni di compassione, generosità, carità ed elemosina si affievoliscono, la nuova struttura economica delle società moderne favorisce l’apparizione di persone che non vedono nel prossimo nient’altro che uno strumento di produzione e di arricchimento, una semplice forza-lavoro. L’avaro diventa sempre meno motivo di scherno o di denuncia perché nel mondo contemporaneo si banalizza. Questa tendenza altro non ha fatto che accrescere lo sviluppo di una certa forma di capitalismo prima e di mondializzazione poi. Sottolineo tra l’altro che l’avarizia oggi veste abiti molto chic, che hanno nomi altisonanti come ecologia, controsviluppo, rifiuto del mercantilismo.. ottime cause che possono servire facilmente da formidabili pretesti ideologici all’avarizia. Ma non bisogna essere ingenui: quando l’avaro rigetta il consumismo non si tratta di un gesto o di una postura politica, lo fa per pura regola d'interesse. Se consuma poco, è perché consumare gli costa. Se gli regalassero delle cose da consumare, lo farebbe senza complessi, forse anche aldilà del suo reale bisogno.

- Come lei stesso ha sottolineato, il cristianesimo è stato a lungo un grimaldello di denuncia dell’avarizia. Si pensi a Giovanni Crisostomo che riteneva che l’avaro “immola la sua anima” o alla magnifica enciclica di Pio XI, “Quadragesimo anno”..

Nella patrisitica cristiana possiamo menzionare anche San Tommaso d’Aquino che sosteneva di tutto ciò che teniamo per noi oltre le nostre necessità che si tratta di furto, usurpazione. Ma dobbiamo soprattutto e prima di tutto evocare la figura stessa del Cristo che incarna un Dio povero e suggerisce un’autentica morale di povertà. Allo stesso tempo, non si tratta di condannare il possesso di beni o la ricchezza. Questo possesso non è un male in sé, ci permette di vivere, di realizzarci, di aiutare gli altri, di partecipare alla costruzione di una società felice. E’ un certo utilizzo di questi stessi beni che può avverarsi colpevole.


- La denuncia dell’avarizia è altrettanto forte presso le altre religioni?

Sì, tutte le grandi religioni rigettano, per dirla alla Pascal, questo “perverso passatempo” che è l’avarizia, che ci distrae dalla reale posta in gioco della vita. Nel giudaismo, ad esempio, ricorre l’idea che ogni ricco debba trasformarsi in mecenate. Quando si ha successo materiale, si deve contribuire all’istruzione e all’educazione altrui. Bisogna rendere in termini di opportunità intellettive tutto ciò che si è guadagnato in termini di denaro. L’islam non è da meno, e non senza una sottile ironia: un proverbio musulmano dice che “il denaro è un rimedio a tutto, fuorché all’avarizia”.


- Nella sua carriera di romanziere e drammaturgo, si è mai fatto tentare dall’idea di mettere in scena la figura dell’avaro?

Mi è successo una volta e del resto si tratta dell’unico personaggio negativo delle mie opere! Appare in “Hotel dei due mondi” (Commedia, 1999, ndt). Non ha un nome ben preciso, si chiama “il Presidente” ed è un perfetto idiota roso dall’avarizia. Sul suo letto di morte ascolta i discorsi dei suoi eredi e capisce, con suo grande rammarico, di essere stato per tutta la sua vita nient’altro che il loro contabile nonché tesoriere. E’ una delle caratteristiche principali dell’avaro: considerare la morte come acerrima nemica perché lo rende generoso, suo malgrado. Da cui il rifiuto da parte degli avari di voler invecchiare. Questa ossessione della morte è una posizione metafisica vera e propria. Corrisponde ad un rifiuto di cambiamento, di trasformazione, una negazione dell’avvenire e del divenire. L’avaro preferisce cristallizzare le cose, pietrificare l’effimero, lottare contro il naturale movimento della vita. Rifiuta l’idea che tutto passa, si modifica, si trasforma. Davanti ad un cielo che cambia, un ruscello che scorre, un legno che si consuma, egli si preoccupa, si dispera. Rifiutando la fragilità della condizione umana, provvisoria, mutevole, l’avaro manifesta la sua debolezza. Il mistero di questa condizione può essere vissuto con angoscia o con giubilo: l’avaro la vive senza dubbio con angoscia, nascondendo questo suo sentimento dietro alla facciata del denaro.

- Che si tratti di Montaigne, Agrippa d’Aubigné, i testi biblici o Jerome Bosch, che nel suo quadro “I sette vizi capitali” la rappresenta come un giudice che tende la mano dietro la sua schiena, l’avarizia è spesso messa in contrapposizione con la giustizia. E’ d’accordo con quest’ idea?

Più precisamente, io l’opporrei alla liberalità. Ciò che dà valore al denaro è il fatto di poterlo spendere. Per l’avaro, il denaro deve essere trattenuto. Qui comincia la perversione. Una persona, nel corso della sua vita, si consuma e consuma ciò che ha guadagnato. L’avaro invece accumula. Allo stesso tempo è un grande collezionista di godimenti personali. Ritornando a quel mio zio, la sua giornata era carica di un’ infinità di piccole gioie. Per esempio, se il tempo era bello, sprizzava gioia da tutti i pori perché, potendo rincasare a piedi, risparmiava il biglietto del metrò. L’avaro si procaccia quindi una ventina di occasioni quotidiane di non spendere o di approfittare della generosità o dell’ingenuità altrui che sono per lui dei veri momenti di piacere. Ma è come Don Giovanni con le donne: la sua struttura mentale è nevrotico-compulsiva, è costretto continuamente a ricominciare perché ciò che crede di cercare non è in realtà ciò che cerca: dietro la ricerca del denaro si nasconde, mi ripeto, la negazione ed il rifiuto della vita nelle sue differenti tappe: nascita, sviluppo, invecchiamento, declino, morte. E’ perciò che, più avanza negli anni, più la sua avarizia si sviluppa: Già La Bruyère lo sottolineava: “l’avarizia è piuttosto un effetto dell’ età e del temperamento senile: i vecchi ci si abbandonano proprio come facevano ai piaceri durante la gioventù o all’ ambizione nell’età virile”.

- Come si diventa avari?

Spesso gli avari giustificano il loro comportamento (che non considerano come quello di un avaro ma piuttosto come quello di uno spirito ragionevole, economo) con un’ infanzia difficile o con il ricordo doloroso di un’esperienza familiare difficile. E’ una copertura, sovente. Si presentano come vittime del passato e temono di diventare vittime del futuro. A mio avviso, l’avarizia trae origine altrove ed in altre circostanze. Quando si prende coscienza della fugacità della nostra vita e di ciò che si possiede, ci sono differenti tipi di risposta. Si può comprendere ed ammettere che tutto è provvisorio e accettarne l’eventuale privazione, persino rallegrarsene. Si può anche considerare che niente appartiene a nessuno e diventare come Karl Marx o Arsenio Lupin. Ci sono poi invece quelli che decidono di attaccarsi saldamente alle loro cose, erigendo questo principio: non mi porteranno mai via ciò che ho. In effetti, il senso profondo di questa frase è: non mi porteranno mai via ciò che sono. L’avaro si procura l’essere attraverso l’avere, si costruisce una solidità ontologica, essenziale, attraverso il possesso. Ciò che tesorizza non è soltanto del denaro, è il suo essere profondo, è identità. Egli sogna in fondo di mettere la sua vita in cassaforte.

- Un elogio dell’avarizia è immaginabile?

Proviamoci: l’ avarizia comincia bene, in ogni caso, quasi come una virtù. Le sue fondamenta psicologiche affondano nell’esercizio della ragione: calcolo, previsione, rifiuto dei piaceri artificiali e materiali. Si fregia di nobili compagnie quali l’ intelligenza, la volontà, la saggezza. Ma quando questa legittima forma di preoccupazione economica degenera in forma di passione, tutto si guasta. I rapporti con gli altri e le attenzioni nei loro confronti sono soppressi e l’avarizia appare come una forma di dipendenza.

- Di malattia?


In un certo modo sì, l’ avarizia ha molti aspetti patologici.


- Ne conosciamo i sintomi e possiamo diagnosticarla ma possiamo curarla o guarirla?


Non conosco avari redenti. Ma, così come sono guarito io stesso, adolescente, dalla mia depressione, ascoltando Mozart che mi ha aperto gli occhi sulla bellezza del mondo, credo che si possa guarire l’avarizia attraverso delle letture filosofiche.


- Quali?


In primis Seneca e Aristotele, per la ricerca del giusto mezzo, il rifiuto dell’eccesso. Poi tutti i filosofi greci i cui testi dimostrerebbero all’avaro, che gode senza essere felice, che è possibile accedere ad una forma pura di felicità in questo piccolo mondo. Gli consiglierei anche un po’ di Nietzsche (a fine cura, direi) e “i Pensieri” di Pascal, che ci ricordano quanto la vita sia aleatoria e censurano la nostra condotta dal momento in cui si limita a delle pratiche utili soltanto a fuggire dalla nostra angoscia vitale, dal nostro faccia a faccia con la carne nuda dell’esistenza. E’ una lettura terrorizzante e consolante allo stesso tempo: ma del resto non è soltanto dopo che si è provato terrore che ci si può consolare? Il problema è che viviamo in un’epoca molle, che ha la pratica fin troppo facile dell’analgesico e preferisce fare ricorso alla chimica davanti ai problemi esistenziali. La gente è invitata a rifuggire ogni sentimento di sconforto mentre è solo da essi che si può trarre quel succo che chiameremo, eventualmente, saggezza. Come scriveva Spinoza: “bisogna amare il bisogno”.



Bio:
Eric-Emmanuel Schmitt è nato a Sainte-Foy-lès-Lyon nel 1960. Come autore teatrale ha scritto numerose opere rappresentate in tutto il mondo. I suoi ro­manzi sono tradotti in molte lingue. Le Edizioni E/O hanno pubblicato Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano e Odette Toulemonde e Piccoli crimini coniugali, da cui sono stati tratti dei film, Milarepa, La parte dell’altro, La mia storia con Mozart, Quando ero un’opera d’arte, La rivale. Un racconto su Maria Callas, La sognatrice di Ostenda, Il visitatore, Il lottatore di sumo che non diventava grosso, Ulisse da Baghdad, La scuola degli egoisti, Concerto in memoria di un angelo, Quando penso che Beethoven è morto mentre tanti cretini ancora vivono..., La donna allo specchio, I dieci figli che la signora Ming non ha mai avuto, L’amore invisibile, La giostra del piacere, Elisir d’amore, Veleno d’amore e La notte di fuoco.

Tratto da Le Figaro Magazine, Luglio 2011
Intervista di Jean Christophe Buisson
Traduzione di Carlo Ligas
(L'articolo originale)

lunedì 1 agosto 2011

Luglio, col bere che ti voglio.. (Playlist 07/2011)


  1. Get In Line - I'm From Barcelona
  2. Shangri La - Yacht
  3. Gone - Endinig In Ing (special thanks to Alice)
  4. Secret Lover - Alessandro Magnanini feat. Jenny B
  5. My Private Night - Ralph Myerz & The Jack Herren Band
  6. It Doesn't Take A Whole Week - Karaocake
  7. Allured - Elephant
  8. Minnesota, WI - Bon Iver
  9. Majik Marker - Mini Mansions
  10. Le Bonheur? Mon Cul.. - Benjamin Biolay

sabato 16 luglio 2011

L'échappée belle



[...] d’altronde, nella famiglia di Carine, ci si sbottona in fretta nel bel mezzo del pasto per parlare di stranieri.
Suo padre li chiama Talebani, tutti. Dice : « Pago le tasse per permettere ai Talebani di fare dieci figli ». 
Dice : « Li sbatterei tutti su un bastimento e tirerei un siluro su quei parassiti, io.. » Gli piace dire anche : 
« La Francia è un paese di assistiti e di buoni a nulla. I francesi son tutti degli imbecilli. » E spesso, conclude così : « Io lavoro i primi sei mesi dell’anno per la mia famiglia e gli altri sei per lo Stato, allora non venitemi a parlare di poveri o di disoccupati, chiaro!? Io lavoro un giorno su due per far ingravidare a Mamadou le sue dieci negre allora non venite a farmi lezioni di morale!”

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Penso a un pranzo in particolare. Non lo ricordo con piacere. Era il battesimo della piccola Alice. Eravamo riuniti a casa dei genitori di Carine, vicino a Le Mans. Suo padre è gestore di un Casinò* (i piselli surgelati, non le roulettes e il black jack) ed è stato vedendolo sul suo selciato, tra il lampione in ferro battuto e la sua bella Audi che ho veramente capito il significato della parola fat. Quel misto di stupidità ed arroganza. Quell’ incrollabile autostima. Quel cachemire azzurro teso sul panzone e quella maniera strana – così calorosa – di tenderti la mano, odiandoti di già.
Mi vergogno a ripensare a quel pranzo. Mi vergogno e non sono la sola. Credo che neanche Lola e Vincent ne siano fieri.. Simon non c’era quando la conversazione è degenerata. Era in fondo al giardino a costruire una capanna per suo figlio. Dev’esserci abituato, lui. Senz’altro sa che è meglio allontanarsi dal vecchio Jacquot quando si sbraghetta. Simon è come noi: non ama le discussioni di fine banchetto, teme i conflitti e fugge i rapporti di forza. Sostiene che sia energia sprecata e che bisognerebbe risparmiare queste forze per scopi più nobili. Che la gente come suo suocero sono battaglie perse in partenza. E quando qualcuno gli parla dell’ascesa dell’estrema destra, scuote la testa: “bah.. è obbligatorio, umano.. è la melma in fondo al lago, occuparsene la farebbe soltanto risalire in superficie.” Come fa a sopportare questi pranzi di famiglia? Come fa ad aiutare suo suocero a tagliare la siepe? Pensa alle capanne del piccolo Léo. Pensa al momento in cui prenderà suo figlio per mano e spariranno da soli nel sottobosco silenzioso.
Mi vergogno perchè abbiamo taciuto quel giorno. Abbiamo di nuovo taciuto. Non abbiamo raccolto le provocazioni di questo bottegaio rabbioso che non vedrà mai più lontano del suo naso. Non l’abbiamo contraddetto. Non ci siamo alzati da tavola. Abbiamo continuato a masticare lentamente ogni boccone, accontentandoci di pensare che fosse soltanto un coglione, cercando di non far saltare le cuciture del nostro abito di dignità. Poveri noi. Vigliacchi, così vigliacchi..
Perchè siamo così, tutt’e quattro? Perchè le persone che urlano più forte degli altri ci impressionano? Perchè la gente aggressiva ci manda nel pallone? Cos’è che non va in noi? Dov’è il confine tra l’essere educati e l’essere pavidi? Ne abbiamo parlato spesso. Abbiamo ammesso le nostre colpe davanti a croste di pizza e portaceneri improvvisati. Non ci serve nessuno per farci chinare il capo. Siamo abbastanza grandi per piegarlo da soli.. e qualunque sia il numero delle bottiglie svuotate, arriviamo sempre alla stessa conclusione: che se siamo così, silenziosi e determinati ma sempre impotenti difronte agli imbecilli, è proprio perchè non abbiamo la minima particella di fiducia in noi stessi. Noi non ci amiamo. Non intendo personalmente. Non ci riconosciamo una tale importanza. Non abbastanza da sputare sul gilet di Don Molinoux. Non abbastanza da credere per un solo istante che le nostre grida potessero deviare lo scorrere dei suoi pensieri. Non abbastanza da sperare che il nostro moto di disgusto, i nostri tovaglioli gettati sul tavolo e le nostre sedie rovesciate possano in qualche modo cambiare l’andazzo del mondo.

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Cosa avrebbe pensato questo contribuente-modello vedendoci reagire così e lasciare la sua magione a testa alta? Avrebbe semplicemente logorato per tutta la sera sua moglie ripetendo: “Che stronzi. No, ma.. che stronzi. No, ma veramente.. che stronzi.” Perchè imporre questo a quella povera donna? Chi siamo noi per rovinare la festa a venti persone? 

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Potremmo anche dire che non si tratta di vigliaccheria. Potremmo anche ammettere che si tratta di saggezza.
Di saper prendere le distanze. Che non ci piace sguazzare nella merda. Che siamo più onesti di tutta quella gente che continua a sbraitare sterilmente. Sì, ci consoliamo così. Ricordandoci che siamo giovani e già troppo lucidi. Che siamo mille cubiti al di sopra di questo formicaio e che la stupidità non può scalfirci più di tanto.
Ce ne freghiamo. Abbiamo altro. Abbiamo noi stessi. Abbiamo un altro tipo di ricchezza. Basta sporgerci un po' in dentro. E’ pieno di cose nella nostra testa. Pieno di cose così distanti da questi rigurgiti razzisti. Ci sono la musica e gli scrittori. Dei sentieri, delle mani, dei rifugi. Delle scìe di comète scarabocchiate su ricevute di bancomat, delle pagine strappate, dei ricordi felici e dei ricordi orribili. Delle canzoni, dei ritornelli sulla punta della lingua. Dei messaggi in archivio, dei libri inconfutabili, degli orsacchiotti sdolcinati e dei dischi graffiati. 
La nostra infanzia, le nostre solitudini, i nostri primi turbamenti e i nostri progetti sul futuro. Tutte quelle ore a farsi la guardia e tutte quelle porte tenute. I flip-flap di Buster Keaton. La lettera di Armand Robin alla Gestapo e l’ariete di nuvole della poesia di Michel Leiris. La scena in cui Clint Eastwood si gira e dice Oh.. and don’t kid yourself, Francesca.. e "La meglio gioventù". I balli del 14 Luglio a Villiers. L’odore di mela cotogna in cantina. 
I nostri nonni, la sciabola del Signor Racine e la sua corazza luccicante, i nostri sogni da provinciali e le vigilie degli esami. L’impermeabile di Mademoiselle Jeanne quando fa per sedersi di dietro, sulla moto di Gaston. 
I fumetti di François Bourgeon e le prime righe del libro di André Gorz a sua moglie che Lola mi ha letto ieri sera al telefono dopo aver di nuovo ricacciato l’amore durante uno dei nostri down: “Stai per compiere ottantadue anni. Ti sei rimpicciolita di sei centimetri, pesi appena quarantacinque chili ma sei sempre bella, graziosa e desiderabile.” Marcello Mastroianni in Oci Ciornie e gli abiti di Cristobal Balenciaga. L’odore di polvere e di pane raffermo dei cavalli, la sera, quando scendevamo dal pullman. I coniugi Lalanne nel loro laboratorio, aldilà del giardino. La notte in cui abbiamo ridipinto Rue des Vertus e quella in cui abbiamo tirato una pelle di aringa sulla terrazza del ristorante dove lavorava quell’asino calzato di Padellone. E quel viaggio, sdraiati su dei cartoni, sul cassone di un camioncino, mentre Vincent ci leggeva L’Etabli ad alta voce. La faccia di Simon quando ha sentito Björk per la prima volta in vita sua e le arie di Monteverdi nel parcheggio di una discoteca. Tutte quelle stupidaggini, quei rimorsi e le nostre bolle di sapone al funerale del padrino di Lola.. I nostri amori persi, le nostre lettere strappate e i nostri amici al telefono. Quelle notti memorabili, la mania di voler sempre spostare tutto e la persona che faremo cadere domani rincorrendo un bus che non ci avrà aspettato. 
Tutto questo ed altro. Abbastanza per non farci il sangue amaro.
Abbastanza per non cercare di discutere con gli imbecilli. 
Che crepino. 
Creperanno, in ogni caso. 
Creperanno soli, mentre noi saremo al cinema.


Anna Gavalda, L'échappée belle 
*Casinò: Catena di generi alimentari. 
Traduzione: Carlo Ligas


domenica 10 luglio 2011

Brani di passaggio, giugno 2011


  1. Morning Glory Cloud - DM Stith 
  2. Everything Goes My Way - Metronomy 
  3. Long Time - Cake 
  4. The Best Person I Know - Cat's Eyes 
  5. J'ai deux Yeux - Le Prince Miiaou 
  6. Blue Suicide - Coma Cinema 
  7. Everglades - Rafale 
  8. The Flying Nun - 9 Lazy 9 
  9. Ma Benz (Cover) - Brigitte 
  10. Yesterday Was Hard On All Of Us - Fink

sabato 18 giugno 2011

NU THINGS [LA RIBALTA DEL MIO iPOD] - giugno 2011




Playlist Giugno 2011
  1. Motopony - King of Diamonds
  2. Giorgio Tuma - New Fabled Stories
  3. Via Audio - Babies
  4. Solex vs. Cristina Martinez & Jon Spencer - Racer X
  5. Drop The Lime - Hot As Hell
  6. Malakai - Fading World
  7. Connan Mockasin - Quadropuss Island
  8. Unknown Mortal Orchestra - Ffunny Ffrends
  9. Kid Francescoli - One Moment
  10. The Leisure Society - I Shall Forever Remain An Amateur 
  11. Hanni El Khatib - Build Destroy Rebuild
  12. Dale Earnhardt Jr. Jr. - Simple Girl
  13. Cuthead - Unacceptable Moustache Styles
  14. Charlotte Gainsbourg & Conor O'Brien - Memoir
  15. SebastiAn - Embody (DJ Premier 95 Break Remix)
  16. Mono In Vcf - Escape City Scrapers
  17. The Cavalcade - Voices
  18. Quakers & Mormons - New York Town
  19. Sufjan Stevens - Impossible Soul (Pt.1) 
  20. Sufjan Stevens - Impossible Soul (Pt.2)

martedì 14 giugno 2011

Piattaforma. Nel centro del mondo, di Michel Houellebecq

                                
Aumentai l'intensità dei baci. Lei venne di colpo, senza che me l'aspettassi, con un grande brivido di tutto il corpo.
"Vieni qui accanto a me... Mi sedetti sul divano. Lei si raggomitolò contro di me, poggiò la testa sulle mie cosce. "Quando ti ho chiesto cos'avessero in più di noi le thailan­desi, non hai risposto; ti sei limitato a mostrarmi l'intervista di un agente matrimoniale." 
"Che però diceva cose giustissime: molti uomini hanno paura delle donne moderne, perché in realtà vorrebbero sol­tanto una brava moglie capace di occuparsi dei figli e della ca­sa. E un antico sogno dell’uomo, ed è ancora attualissimo, ma in Occidente è diventato quasi impossibile confessarlo; ecco perché poi vanno a sposarsi le asiatiche." 
"Lo so..." Valérie rifletté un istante. "Però tu non sei così; per esempio, il fatto che io abbia un lavoro di grande respon­sabilità e uno stipendio alto non mi sembra che ti crei pro­blemi o che ti faccia paura. Eppure sei la stessa persona che invece di abbordarmi ha preferito andarsene in un salone per massaggi. E questo che non riesco a capire. Cosa hanno in più quelle ragazze? Fanno davvero l'amore meglio di noi?" 
Su quelle ultime parole la voce le si era leggermente incri­nata; ero molto colpito, mi ci volle quasi un minuto prima di riuscire a rispondere. "Valérie," riuscii finalmente a dire, "io non ho mai conosciuto una donna capace di fare l'amore co­me lo fai tu; il piacere che sei riuscita a darmi in queste ore è quasi incredibile." Tacqui un istante, poi aggiunsi: "Tu non puoi rendertene conto, ma devi credermi se ti dico che sei un'eccezione. Oggi come oggi sono rarissime le donne in gra­do di provare piacere e disposte a darne. Ormai sedurre e fa­re sesso con una donna che non si conosce è quasi esclusiva­mente fonte di problemi e frustrazioni. Se si pensa al livello delle conversazioni che bisogna subire per portarsi a letto una ragazza, e se si pensa che nella maggior parte dei casi la sud­detta ragazza si rivelerà una pessima amante, decisa a spac­carti i coglioni coi suoi problemi e ad attaccarti bottoni infi­niti sui suoi ex amichetti — facendoti capire, per inciso, che non sei proprio all'altezza — e che ti toccherà per forza passa­re con lei quantomeno il resto della notte... be', credo che a quel punto non ci sia molto da stupirsi se tanti uomini pre­feriscono togliersi il pensiero sganciando una piccola somma. Appena hanno un minimo di età e di esperienza, gli uomini preferiscono evitare l'amore; trovano molto più semplice an­dare a puttane. Ovviamente non mi riferisco alle puttane oc­cidentali, con quelle non vale proprio la pena, sono degli au­tentici relitti umani; ma non tutti possono permettersi di an­dare a puttane in giro per il mondo, anche perché non ne avrebbero il tempo, costretti come sono a massacrarsi di la­voro. Quindi finisce che la maggior parte di loro non fa nien­te; e alcuni, invece, ogni tanto si concedono un po' di turi­smo sessuale. E posso garantirti che si tratta dei più fortuna­ti: fare sesso con una puttana è comunque instaurare un mi­nimo di contatto umano. Perché poi ci sono quelli che tro­vano più semplice masturbarsi su Internet, o guardare video porno. Una volta che l'uccello ha sputato il suo schizzetto, si sentono in pace con se stessi." 
"Capisco..." disse lei dopo un lungo silenzio "Capisco quello che vuoi dire. E. non pensi che uomini e donne possa­no cambiare?" 
"No, non credo che le cose possano tornare indietro. Quel­lo che succederà, probabilmente, è che le donne diventeran­no sempre più simili agli uomini; per il momento, comun­que, hanno ancora la fissa della seduzione; invece agli uomini non gliene frega niente di sedurre, vogliono soprattutto scopare. La seduzione è importante solo per i maschi privi di una vita professionale eccitante o di altre forme di interesse. Ma prima o poi, con l'aumentare dell'attaccamento alla vita professionale, anche le donne finiranno per trovare più sem­plice pagare per scopare; e anche loro si dedicheranno al tu­rismo sessuale. Le donne sanno adattarsi ai valori maschili; certe volte devono sforzarsi, ma sono perfettamente in grado di farlo, è storicamente provato." 
"Sicché, in generale, siamo messi piuttosto male." "Molto male," dissi, con cupa soddisfazione. 
"E allora tu e io abbiamo avuto fortuna." 
"La fortuna ce l'ho avuta io incontrandoti." 
"Anch'io..." disse lei guardandomi negli occhi. "Anch'io ho avuto fortuna. Gli uomini che conosco sono una vera ca­tastrofe; non ce n'è più nemmeno uno che creda davvero nel rapporto amoroso, sicché si mettono a fare delle gran storie sull'amicizia, sulla complicità, su tutte queste stronzate che non significano assolutamente niente. Pensa, sono arrivata a un punto tale che non riesco più a sopportare la parola ami­cizia, mi saltano i nervi ogni volta che la sento. Oppure ci so­no gli altri, quelli che si sposano, quelli che si accasano più presto che possono e che poi pensano solo ed esclusivamente al lavoro. Tu non fai parte dì questa categoria, ovviamente, ma appena ti ho visto ho capito che non facevi parte neanche dell'altra, che non mi avresti mai parlato di amicizia, che non saresti stato così volgare. Ho sperato subito che saremmo an­dati a letto insieme, e che avremmo vissuto qualcosa di in­tenso; ma sapevo che poteva anche non succedere niente, an­zi, che era la cosa più probabile."


(tratto da "Piattaforma. Nel centro del mondo" di Michel Houellebecq - Bompiani 2003)

lunedì 13 giugno 2011

Edna O'Brien - Chiacchere di bottega con Philip Roth

               


ROTH: Nella mia prefazione al tuo libro "Un cuore fanatico" cito quello che Frank Tuohy, in un saggio su James Joyce, ha scritto su voi due: che mentre Joyce, in Gente di Dublino e in Ritratto dell’artista da giovane, è stato il primo irlandese cattolico a dare testimonianza delle proprie esperienze e del proprio ambiente, «il mondo di Nora Barnacle [l’ex cameriera divenuta moglie di Joyce] ha dovuto attendere le opere di Edna O’Brien». Quanto è stato importante per te Joyce? Un tuo racconto come “Tough Men”, che racconta il raggiro dì un bottegaio trafficone da parte di un truffatore itinerante, sembra uscito da una sorta di Gente di Dublino rurale, e tuttavia a quanto pare hai preferito non raccogliere la sfida delle sperimentazioni linguistiche e mitiche di Joyce. Che cosa ha significato Joyce per te? Che cosa hai tratto o appreso da lui? E quanto è intimorente per uno scrittore irlandese avere come precursore questo gigante della parola che ha ruminato tutto ciò che di irlandese aveva a disposizione? 

O’BRIEN: Nella costellazione dei geni, Joyce è una luce accecante e il padre di tutti noi. (Escludo Shakespeare perché per Shakespeare nessun epiteto umano è sufficiente). Quando ho letto Joyce per la prima volta, si trattava di un libretto a cura di T. S. Eliot comprato di seconda mano al porto di Dublino per quattro pence. Prima di allora avevo letto pochissimi libri, per lo più lacrimosi e improbabili. Ero un’apprendista farmaceutica che sognava di scrivere. Ed ecco I morti, e una sezione del Ritratto dell’artista da giovane, che mi colpirono non solo per l’incanto dello stile, ma anche perché erano cosi fedeli alla vita, erano la vita. Poi, un bel po’ di tempo dopo, ho letto l’Ulisse, ma da ragazza non ce l’ho fatta, era davvero troppo per me, troppo inaccessibile e troppo maschile, con l’eccezione della celebre parte di Molly Bloom. Ora considero l’Ulisse il libro più divertente, brillante e complesso, e meno noioso, che abbia mai letto. In qualunque momento posso prenderlo e leggere a caso qualche pagina, e mi sento come se avessi avuto una trasfusione di intelligenza. Quanto al suo essere intimorente, il confronto non è neanche in questione. Semplicemente, Joyce è oltre, al di là di tutti noi, «le lontane Azzorre», come avrebbe detto lui. 

ROTH: Torniamo al mondo di Nora Barnacle, alla visione del mondo delle Non Barnacle, quelle che restano in Irlanda e quelle che si danno alla fuga. Al centro di praticamente tutte le tue storie c’è una donna, per lo più una donna sola, che combatte l’isolamento e la solitudine, o cerca l’amore, o fa marcia indietro dopo essersi fortunosamente avventurata fra gli uomini. Ho l’impressione che tu scriva di donne senza un briciolo di ideologia, senza alcuna preoccupazione di sostenere la posizione corretta. 

O’BRIEN: La posizione corretta è scrivere la verità, scrivere quello che si sente senza badate ad alcuna considerazione pubblica e ad alcuna cricca. Io credo che un’artista non debba mai sostenere una posizione, né 
per opportunismo né per risentimento. Gli artisti detestano e diffidano delle posizioni perché sanno che nel momento in cui si sostiene una particolare posizione si diventa qualcos’altro: un giornalista, o un politico. Quello di cui sono alla ricerca è un pizzico di magia, perciò non intendo scrivere pamphlet o leggerli. Ho ritratto donne in situazioni di solitudine, disperazione e spesso umiliazione, molto spesso zimbello degli uomini e quasi sempre alla ricerca di una catarsi emotiva che non arriva. Questo è il mio territorio, che conosco grazie a una dura esperienza. Se vuoi sapere qual è per me il punto cruciale della disperazione femminile, eccolo: 
nel mito greco di Edipo e nella riflessione di Freud su di esso, il desiderio del figlio per la madre è contemplato; anche la bambina desidera la madre, ma è impensabile, tanto nel mito, nella fantasia, quanto nella realtà, che questo desiderio possa essere consumato. 

ROTH: Tuttavia non puoi non tenere in considerazione i mutamenti di «coscienza» che si dice siano stati prodotti dal movimento femminista. 

O’BRIEN: Si, certe cose cono cambiate in meglio — le donne non sono un oggetto di proprietà, esprimono il proprio diritto a guadagnare quanto gli uomini, a essere rispettate, a non essere il «secondo sesso» ma nelle questioni sentimentali le cose non sono cambiate. L’attrazione e l’amore sessuale non nascono dalla coscienza, ma dall’istinto e dalla passione, e in questo uomini e donne sono radicalmente differenti. L’uomo ha ancora la maggiore autorità e la maggiore autonomia. E' biologico. Il destino della donna è ricevere lo sperma e trattenerlo, mentre quello dell’uomo è darlo, e nel darlo l’uomo consuma la propria energia, e di conseguenza poi si ritira. Mentre lei è in un certo senso nutrita, lui è all’opposto prosciugato, e per riprendersi ha bisogno di una fuga temporanea. Di conseguenza si ha il risentimento da parte della donna per essere stata abbandonata, anche se per poco; e da parte dì lui il senso di colpa per essersene andato; e soprattutto il senso di autodifesa necessario a ritrovarsi per potersi riaffermare. Perciò la vicinanza è sempre solo relativa. Un uomo può dare una mano con i piatti, e così via, ma il suo coinvolgimento è più ambiguo, e il suo sguardo più errabondo. 

ROTH: E non ci sono donne altrettanto promiscue? 

O’BRIEN A volte anche le donne lo sono, ma senza provare lo stesso senso di appagamento. Una donna, oserei dire, è capace di un amore più profondo e più duraturo. Aggiungerei anche che una donna ha più paura di essere lasciata. Questo vale ancora oggi. Entra in un qualunque negozio di abbigliamento, parrucchiere, palestra o mensa femminile e vedrai una quantità enorme di disperazione e competizione. La gente ha in bocca un sacco di slogan, ma sono solo slogan. Ciò che conta è quello che sentiamo e quello che facciamo. Le donne non sono più forti emotivamente di quanto siano mai state in precedenza. Semplicemente sono più consapevoli delle proprie emozioni. L’unica vera sicurezza sarebbe volgere le spalle agli uomini, staccarsene, ma questa sarebbe una piccola morte, almeno per quanto mi riguarda. 

ROTH: Perché scrivi cosi tante storie d’amore? E’ a causa dell’importanza del tema o perché, come molti altri nella nostra professione, quando sei cresciuta, hai lasciato la famiglia e hai scelto la solitaria vita dello scrittore, inevitabilmente quella dell’amore sessuale è diventata la sfera di esperienza più forte a cui continui ad avere accesso? 

O’BRIEN Prima di tutto credo che per me il fervore amoroso abbia rimpiazzato quello religioso. Quando ho cominciato a ricercare l’amore terreno (cioè il sesso), ho sentito che mi stavo allontanando da Dio. Rivestendosi del manto della religione, il sesso ha assunto proporzioni smisurate. E’ diventato l’aspetto centrale nella mia vita, uno scopo in sé. Sono stata molto vulnerabile alla sindrome Heathcliff /Mr. Rochester, e lo sono ancora. L’eccitazione sessuale è stata per molti versi legata al dolore e alla separazione. La vita sessuale è centrale per me, come credo per chiunque altro. Il sesso richiede un sacco di tempo, sia il pensarci sia il farlo, anche se spesso è il pensarci ad avere il posto d’onore. Per me è soprattutto un ambito recondito, che contiene elementi di mistero e di razzia. La mia vita quotidiana e la mia vita sessuale non sono un’unica cosa, sono separate. Parte della mia eredità irlandese!

ROTH: Qual è l’aspetto più difficile nell’essere una donna che scrive? In quanto donna incontri difficoltà che io come uomo non ho? E immagini che io abbia difficoltà che tu non hai? 

O’BRIEN: Credo che sia differente essere un uomo ed essere una donna, molto differente. Credo che in quanto uomo tu abbia dietro le quinte della vita un intero corteggio di donne che ti aspettano: potenziali mogli, amanti, muse, infermiere. Le donne scrittrici non hanno questo vantaggio. Gli esempi sono numerosi: le sorelle Brònte, Jane Austen, Carson McCullers, Flannery O’Connor, Emily Dickinson, Marina Cvetaeva. Mi pare che sia stato Dashiell Hammett a dire che non avrebbe voluto vivere con una donna che avesse più problemi di lui. Credo che i segnali che gli uomini ricevono da me li allarmino. 

ROTH: Dovresti trovare un Leonard Woolf. 

O’BRIEN: Non voglio un Leonard Woolf. Voglio Lord Byron e Leonard Woolf mescolati insieme.



(Intervista tratta da "Chiacchere di bottega - Uno scrittore, i suoi colleghi e il loro lavoro", di Philip Roth. Einaudi 2004)

martedì 10 maggio 2011

Jonathan Franzen, The Art of Fiction : Intervista all'autore di Libertà


Dopo i Lambert, protagonisti di “Le Correzioni”, il grande romanzo che 10 anni fa ha fatto urlare al miracolo la critica interna­zionale ed è anche stato molto letto (qualco­sa di non diverso da quello che succede quando esce un disco dei R.E.M.: piace a tutti), Jonathan Franzen se ne torna con una nuova saga fami­liare, “Libertà”, in uscita questo mese da Einaudi con la tradu­zione di Silvia Pareschi. Ancora una storia di ampio respiro e perfetto approfondimento psicologico. Che negli Usa ha fatto guadagnare all'autore la copertina di Time (a uno scrittore non succedeva dal 2000 e si chiamava Stephen King).

Malgrado il silenzio, la musica ha un ruolo fondamentale nei suoi libri.

«Provo una grande invidia per chi fa musica, più che per ogni altra forma d'arte.  Il modo in cui una canzone è capace di farti sballare, di farti entrare in contatto con la tua parte più profonda e intel­lettuale (...). Ogni mio libro è legato a una serie di canzoni. 

C'è sempre una dose di rock&roll nell'insieme, ma in Le correzioni la colonna sonora principale era, probabilmente, Petrushka, il balletto di Stravinsky che non solo corrisponde perfetta­mente al senso che cercavo di dare nel libro, ma anche alla sua struttura, alle differenti relazioni tra le singole parti e il totale. 
In più, cercavo di arri­vare a qualcosa in stile Music for 18 Musicians di Steve Reich per le stratificazioni metaforiche e le interconnessioni».

Mentre ne Le correzioni ci sono moltissimi riferimenti al cervello, in Libertà il linguag­gio della chimica del cervello e della sua archi­tettura è quasi del tutto inesistente.

«Beh, ogni volta si devono affrontare nuove sfide. Libertà è stato pensato e scritto in una deci­na d'anni, in un periodo in cui la lingua era come sotto attacco. Una cosa mai vista. La propaganda usata dall'amministrazione Bush e l'appropriazio­ne di varie parole — fra cui libertà, ad esempio—con lo scopo di ottenere cinicamente un vantaggio immediato era una cosa talmente evidente che era impossibile da negare. Erano anche, però, gli anni di YouTube, della possibilità per tutte le persone del mondo di avere un cellulare, di Facebook e di Twitter, insomma vivevamo in un nuovo mondo d'af­fari e divertimento alla portata di tutti.

Perciò ho deciso, per il mio romanzo, di agire su due fronti contrapposti. E così, da un lato ho preso uno di quei paroloni alla moda, come libertà appunto, e ho cer­cato di ridargli il suo giusto e corretto valore, men­tre dall'altro ho raddoppiato gli sforzi per scrivere un libro con abbastanza forza da trascinarti in un mondo dove puoi pensare liberamente e in manie­ra differente da quella a cui sei obbligato quando ti trovi sotto un continuo attacco mediatico, bom­bardato da migliaia d'informazioni e distratto da mille cose. 
L’impulso a difendere il romanzo, la mia pic­cola zona libera, è sempre più importante, ma i nemi­ci cambiano continuamente».

Per Libertà pensava a un romanzo politico?

«Sì. Ho speso tanti anni a cercare qualcosa d'in­teressante nella letteratura politica americana, qualche idea che non fosse stata sviluppata fino in fondo. In più, non ce la facevo proprio a supera­re la mia rabbia partigiana e approdare alla placi­da zona del dialogo politicamente corretto in cui sono scritti i bei romanzi. Stavo facendo lo stes­so errore di sempre: cercare di scrivere un libro in senso cronologico, dall'inizio alla fine. Ogni volta invece mi ritrovo a dover imparare il metodo più difficile, che è quello di partire dal protagonista».

Quando ha iniziato a capire che il libro stava prendendo forma?

«Solo verso la fine della lavorazione. Ancora pochi mesi prima di consegnarlo all'editore avevo in mente qualcosa di com­pletamente differente, un romanzo composto da materiale non strettamen­te narrativo, da documen­ti. La frase che continuo a ripetermi mentre sto scri­vendo, è: "Non so di cosa parla il libro! Non ho una storia!". E questa specie di ritornello si zittisce solo quando scrivo gli ultimi due capitoli. A metà del 2007, dopo circa cinque anni di stasi creativa, d'im­provviso mi sono ritrova­to con tutti gli elementi necessari per scrivere qualcosa d'interessante e ho parlato al mio editore di una storia con un trian­golo amoroso. Lui mi ha detto: "Non mi sembra male. Potrebbe essere un divertente racconto breve. Ti farò un contratto". Stabilimmo i tempi di consegna del manoscritto, circa io mesi dopo: pensavo ancora a un libro di carattere politico e volevo che uscisse prima delle elezioni del 2008. Per cercare di preparare i primi capitoli me ne andai a Berlino a respirare la buona e vecchia aria lette­raria tedesca, cercando di sfruttare il più possibi­le l'isolamento e la pressione che esercitava su di me la data tassativa di consegna. Ma non riuscivo ancora a definire i personaggi. E così ritornai in America e per tutta quell'estate provai, mi sforzai. Ma non ce la facevo a definire niente. Ero a un tale livello di disperazione che decisi di prendermi un anno sabbatico».


E lo ha fatto?

«Beh, quasi. Ho speso cinque interi mesi a scri­vere un lungo reportage per il New Yorker sull'in­quinamento in Cina (...). Solo quando mi resi conto che questo pezzo faceva fatica a trovare una audience o ad avere un qualche impatto di un cerco rilievo, ho capito che avrei fatto molto di più per il mondo se mi fossi ritirato nella mia stanza a occu­parmi della sola cosa per cui sono stato mandato su questa Terra».

Come ha capito che le cose stavano procedendo per il meglio?

«La parola che definisce al meglio la situazione è "adeguatezza". Per Libertà ho usato come lettore prin­cipale e consulente la mia amica Elizabeth Robinson, che stava scrivendo il suo romanzo. Uno dei suoi suggerimenti è stato: "Devi solo rendere il tuo libro adeguato (...)". Quando ero ragazzo, lo scopo più importante della mia vita era diventare un `buon scrit­tore". Adesso posso dire d'aver affinato le mie capa­cità, sebbene questo non significhi che io abbia sem­pre scritto cose egregie. Anzi, a dirla proprio tutta quando ho iniziato a scrivere Libertà, ad esempio, non prestavo grande attenzione allo stile.., insom­ma, non ero preoccupato più di tanto. Come sem­pre buttavo giù capitoli su capitoli e intanto mi dice­vo: "Questo non sembra il modo di scrivere che ho adottato negli ultimi 20 anni, è diverso, più traspa­rente". Non vedevo, però, in alcuna delle pagine che si stavano formando, i caratteristici segni che mi ave­vano dato la forza per completare Le correzioni: lì le frasi si componevano da sole per esplodere come fuochi d'artificio. Si trattava di belle frasi e io potevo dissipare tutti i miei dubbi semplicemente rileg­gendole o mostrando i primi capitoli del libro a Dave Means (scrittore, considera­to uno dei nuovi maestri del racconto breve, ndr), da cui mi aspettavo un'appro­vazione totale: ciò che avevo scritto aveva una tale forza che mi lasciava completa­mente soddisfatto. Per Libertà, è stato completa­mente diverso, il mio pensie­ro era: "Accidenti, ho appe­na scritto tantissime pagine senza usare metafore sulle folli giornate vissute da un normale studente ame­ricano, e non so se siano veramente buone!". 

Avevo bisogno, come mai prima, di approvazione. Ero per­fettamente consapevole di avere realizzato qualco­sa di bello e, nello stesso tempo, di completamente diverso da quello fatto sino ad allora, perché avevo retto un linguaggio che fosse un accesso diretto, sem­plice, sia alle storie che ai personaggi. Nonostante ciò, mi sentivo sperso».


Si dice che i suoi ultimi libri, più che roman­zi del XXI secolo, sembrino appartenere al XIX secolo.

«Quelli dell'Accademia Svedese, che assegnano il Premio Nobel, hanno confessato di non avere molto interesse nella letteratura contemporanea americana. Sostengono che è troppo chiusa su sé stessa, non si apre al mondo, guarda troppo il pro­prio ombelico. Osservando come il mondo si è ame­ricanizzato, credo che quella non sia una critica giu­sta: probabilmente noi americani riusciamo a rac­contare il mondo semplicemente parlando di noi, che è di più di ciò che riuscirebbe a fare uno scrit­tore svedese descrivendo un suo viaggio in Africa- Ma anche se loro avessero ragione, non credo che la nostra "chiusura" sia una cosa negativa. Mi col­pisce il parallelo con la Russia del XIX secolo. Stiamo parlando di un mondo piccolo, bravo a respingere qualsiasi tipo di potere straniero, che è riuscito a mantenere un'identità separata per seco­li_ Forse quella è la vera insularità. L'Idea di vivere in un ambito autosufficiente, anche se non corri­sponde al mondo intero, favorisce alcuni svilup­pi letterari. Tutti quei vecchi russi cercavano di com­prendere cosa sarebbe diventato il loro Paese e quel­la domanda non era del tutto senza senso, perché la Russia, dopotutto, era una nazione molto gran­de e non solo geograficamente. Se un abitante del Liechtenstein s'interroga sul futuro del proprio Paese, a chi importa veramente? Invece l'America e la Russia sembrano avere la giusta dimensione per dar vita a romanzi di largo respiro, come è stato, in un certo periodo, per l'Inghilterra, grazie al suo impero. Non per nulla, l'età d'oro del romanzo ingle­se coincide con quella della sua massima espansio­ne coloniale. Però, anche lì, non si tratta del mondo intero, ma di un microcosmo, per quanto abbastanza vasto. Il vero cosmopolitismo non è compatibile con il romanzo, perché gli scrittori hanno bisogno del dettaglio. Contemporaneamente, noi scrittori abbiamo bisogno di spazi in cui muo­verci liberamente e, per fortuna, qui in America ci sono entrambi. Detto questo, non mi sento di appartenere particolarmente al XIX secolo. 

Tutte le questioni che sono diventate problematiche in epoca moderna devono per forza essere centrali in ogni libro».

In più non sembra che il romanzo rivesta per lei ancora una grande importanza.

«Non mi piace la ricerca forzata della novità fine a se stessa. Ma, allo stesso tempo, non posso fare niente se non sento che sto creando qualcosa di nuovo. Leggere, oggi, è considerata un'attività piuttosto insolita, ci sono così tante alternative per divertirsi, e anche più facilmente accessibili, che sono molto attento, soprattutto come lettore, a capire se un autore cerca di sperimentare e pro­vare a dire qualcosa di nuovo o vuole solo rivol­tare la frittata. Naturalmente, ci sono sempre nuovi argomenti che ti possono portare lontano o venirti in soccorso quando hai problemi di stile, formali. Credo sia proprio l'importanza del conte­nuto che personalità come Harold Bloom (critico letterario statunitense, ndr), ad esempio, sottosti­mano nell'analisi di un romanzo. Bloom dà il meglio di sé nello studio della poesia, perché è linguaggio puro. Ma il suo approccio perde senso quando lo applica alla narrativa, della quale appunto consi­dera solo la lingua. Lo stile è importante, assolu­tamente, ma la storia della letteratura non è esclu­sivamente ricerca stilistica. Faulkner ha avuto una grande influenza sulla letteratura, e così Joyce, Hemigway, Carter, Lish e DeLillo Ma l'aspetto strutturale è solo uno degli elementi che conflui­scono in quel gran calderone che è la forma nar­rativa».

Che ruolo hanno avuto gli autori moderni nel suo sviluppo artistico?


«Continuo ad apprendere tantissimo da Proust e dal suo perfetto modo di raccontare, dalla sua con­sapevolezza di quanto sia importante, per uno scrit­tore, non rimanere legato a una precisa scansione temporale, potendo allungare così a dismisura la storia, e dalla sua capacità di interpretare perfet­tamente quel senso di lento sprofondamento che è la nostra vita. Le cose non sono mai quelle che appaiono a prima vista, spesso sono proprio l'op­posto. E poi Conrad. La preveggenza ne L'agente segreto, l'intensità e la violenza psicologica di Vittoria, l'incisiva critica al colonialismo in Nostromo. Libri meravigliosi nei contenuti e nello stile. Nella prima parte di Nostromo, Conrad costruisce uno sfondo che poi abbandona per fare un salto in un altro luogo e in un altro tempo, trascinandoti completamente. Lui è molto bravo nello sviluppare una scena che nemmeno si aspet­tava, ma a quel punto, quasi miracolosamente, si dice: "Ma qui c'è una storia e non è quella che avevo in mente". Ti toglie il fiato, amo questa cosa, la amo».

Una volta lei diede una descrizione dell'Ulisse di Joyce definendolo una cattedrale.


«Forse il mio "momento Joyce" deve ancora arri­vare. Mi piace molto Ritratto di un artista, ancor di più Gente di Dublino. Non posso, però, fare a meno di pensare che Joyce, dopo aver scritto quei libri, cercasse una consacrazione, una specie di sta­tus. È come se si fosse inventato lui stesso la cate­goria nella quale sarebbe stato inserito il suo lavo­ro. Da questa riflessione è nata l'immagine della cat­tedrale: creo qualcosa di così assoluto e solido che sarà ammirato e studiato a lungo nel tempo. In Joyce c'è una specie di freddo cinismo gesuitico, e i gesui­ti, non bisogna dimenticarlo, sono sempre stati gran­di manipolatori ed elitari. Io, invece, sono un vec­chio egualitario del Midwest e quel tipo di perso­nalità non mi piace. Trovo più affinità con artisti come Beckett, che è sicuramente più difficile da leg­gere di Joyce, ma non è questo il punto. Beckett cerca di dare voce al suo profondo orrore personale e in ciò trova una nota di divertimento e universalità. Lui è sempre attento al linguaggio, ma la sua ricer­ca non è esclusivamente al servizio di qualcosa di pensato, ma anche di sentito. E questo atteggiamen­to mi è molto più familiare». (...)

È importante il giudizio dei critici?

«... tranne qualche rara eccezione, ho smesso di leg­gere le recensioni dei miei libri dopo l'articolo di James Wood per Le correzioni. Lui è un lettore molto acuto, abbiamo gli stessi nemici ed entusia­smi. Ma il suo era un pezzo cavilloso, lagnoso e let­teralmente censorio, con dei malintenzionali riman­di al mio saggio pubblicato su Harper's Bazaar. La delusione derivata da quella lettura e una quindi­cina di minuti passati insensatamente nel 2001 a fare una ricerca su Google con il mio nome mi hanno curato dal bisogno di leggere di me stesso».

E il successo di Libertà le ha fatto cambiare idea?

«No».






Intervista di Stephen J. Burn, tratta da The Paris Review No. 195 Winter 2010