sabato 29 settembre 2012

La sottile linea rossa (Gli uomini ai tempi della guerra), di Marco Lodoli


Che cosa è e cosa separa la sottile linea rossa tracciata nel titolo del più bel film dell’anno? 
E' la linea del sangue che ogni giovinezza deve versare per accedere alla compassione e al disincanto della maturità? 
O è la linea feroce che divide la Storia dalla Natura, il rimbombo del mortaio da quello del temporale, la marcia del guerriero da quella delle stagioni o, ancora, la crudeltà che l’uomo agita per sentirsi forte dalla bellezza indifferente dell’universo? 
Dove passa quel filo insormontabile, dentro i nostri sgretolati pensieri, tra l’affanno delle domande e il bisbiglio indecifrabile delle risposte? Tra la vita e la sua fine? 
Scriveva Ortega y Gasset che «la realtà tutta, il mondo reale, tutta questa gran cosa non è che frammento, e come tale è priva di senso, e ci costringe con dolore a cercare la porzione mancante, che non è mai là, che è l’eterno Assente — e che ha nome Dio: il Dio che si nasconde, Deus Absconditus ». 
Dunque è tra il mondo e il Dio celato, inaccessibile, che corre il filo tagliente della linea: tra ciò che si frantuma nel disordine dell’incompiutezza e ciò che rimane perfetto e distante, come distante e perfetta è l’amata nei sogni cupi e febbrili dell’innamorato. 
«Se io non ti incontrerò mai, fa’ che senta sempre la tua mancanza», prega nel pensiero uno dei tanti soldati che il regista Malick ci racconta.


Nulla ha a che spartire quest’opera con Salvate il soldato Ryan, ed è del tutto sbagliato misurare un film raro come questo con il metro di legno usato per l’altro. 
Là tutto procedeva come un cuneo che stringe inesorabilmente verso un punto; il tema era classico, epico-cavalleresco: la storia di una ricerca e di un sacrificio, un percorso fatto di prove tanto terribili quanto necessarie a valutare la nobiltà degli eroi, per fissare il senso della vita nella fedeltà con cui si affronta un compito insensato. Il film di Spielberg andava avanti deciso come il resoconto d’una crociata, protetto dalla fede nel bene che gli americani e i vincenti spesso si portano dentro. E' la forza delle nostre scelte a dare verità alle cose — suggerisce Spielberg. 
La sottile linea rossa, invece, vuole mostrare lo smarrimento degli esseri umani, formiche rosse e nere a combattere sotto una volta celeste che sembra l’occhio d’un cieco, e lo fa sfarinando la rocciosa compattezza del film di guerra. 
Ciò che era pietra diventa vento, lo slancio diventa caduta e ciò che pareva carattere si rivela anima vaga. Le azioni belliche — attacchi, smitragliamenti, esecuzioni — sono corrose dai pensieri e dai colloqui dei protagonisti, che come un tamburo continuo battono l’unico tempo della sconfitta. 
Certo, c’è un bunker da conquistare, ci sono giapponesi da abbattere, un coraggio e una paura da mettere alla prova, ma più forte è il sentimento della pochezza umana, di un mistero che tutto avvolge e copre come un manto scuro. 
Le domande essenziali picchiano nella mente più dure delle bombe, strisciano più pericolose dei nemici: chi siamo, da dove viene il male, perché sprechiamo cosi ignobilmente la nostra unica vita? 



A molti spettatori potranno sembrare questioni retoriche, vaghezze metafisiche che ritardano il ritmo militare del film sfasciandone la tensione, ma a me sono suonate più che mai necessarie: mettono aria in una fisarmonica non più compatta come quando stava chiusa, ma che dilatandosi finalmente suona la musica del mondo, larga e malinconica. 
Così il film spesso pare sgangherarsi e perdere di vista l’obiettivo, si distrae contemplando gli animali, le nuvole, le folate che passano sull’erba alta, i dialoghi portano dubbi e lontananze, e i volti dei soldati sono i volti dell’incertezza umana — ma tutto ciò ci fa più vicini a quella sottile linea rossa dove il tempo e l’eterno si fronteggiano e, a volte, per un secondo che batte solo nell’anima di chi si sente perduto, si toccano.




Articolo tratto da 'Fuori dal cinema' - Il "Diario" di 100 film, di Marco Lodoli, ed. Einaudi - 1999

martedì 25 settembre 2012

Un pistolet chargé caresse ma joue - Playlist Settembre 2012


                  
#1 - Smalltalk - Ultraìsta (Four Tet Remix)
#2 - Femuscle - Siriusmo
#3 - Baby Baby Sweet Sweet - Hyphen Hyphen
#4 - Getaway Tonight - Opossom
#5 - La Foret - Lescop
#6 - Cyan - Kindness
#7 - Plastic Beach - Gorillaz Feat. Mick Jones & Paul Simonon
#8 - Unfold - The XX (Akin Remix)
#9 - 25 - Kid Francescoli
#10 - A Walk - Tycho

venerdì 14 settembre 2012

Collaborare con Carver, di Robert Altman


Raymond Carver trasformava in poesia le cose più prosaiche. 
Un critico ha scritto che «rivelava l’insolito celato dietro l’ordinario», ma sarebbe più esatto dire che catturava le meravigliose idiosincrasie del comportamento umano, le idiosincrasie che esistono nella casualità delle esperienze di vita. E il comportamento umano, così ricco di mistero e ispirazione, mi ha sempre affascinato. 
L’opera di Carver mi appare come un unico grande racconto: ogni sua storia ruota intorno a un avvenimento, qualcosa che accade alle persone provocando una svolta nelle loro vite. A volte toccano il fondo. A volte scampano per un soffio al disastro. Altre volte non gli resta che tirare avanti, scoprendo cose che non avrebbero voluto sapere l’uno dell’altro. I suoi racconti si basano prevalentemente su ciò che non viene detto, e sta al lettore riempire i vuoti, individuando sfumature e sottintesi. 
Nel comporre il mosaico del film America oggi, tratto dai nove racconti e dalla poesia «Limonata» raccolti in questo volume, ho cercato di fare la stessa cosa: offrire al pubblico uno sguardo. Ma il film potrebbe continuare per sempre, perché è come la vita — si può scoperchiare il tetto della casa dei Weather e vedere Stormy che fa a pezzi i mobili con una sega circolare, poi fare lo stesso con altre case, quella dei Kaiser, dei Wyman o degli Shepherd, e scoprire altri comportamenti.



Ci siamo presi delle libertà con il lavoro di Carver: i personaggi sono passati da una storia all’altra; sono stati creati dei collegamenti tra gli uni e gli altri; in alcuni casi i nomi sono stati cambiati. E anche se i puristi e i fan di Carver storceranno il naso, il film nasce da un lavoro serio di collaborazione con gli attori e con il mio cosceneggiatore Frank Barhydt sui testi di Carver raccolti in questo libro. 
Quando ho parlato del progetto del film con la poetessa Tess Gallagher, vedova di Ray, le ho spiegato che nel mio approccio non sarei stato fedele a Carver e che le storie sarebbero state smontate e rimontate. Lei ha istintivamente capito la mia idea e mi ha incoraggiato, dicendo che Ray era un ammiratore di Nashville, che gli piaceva l’impotenza dei personaggi e la loro capacità di cavarsela malgrado tutto. 
Inoltre Tess era consapevole che in ogni disciplina gli artisti devono utilizzare le tecniche e i metodi della propria arte. La trasposizione cinematografica di un testo letterario spesso segue percorsi imprevedibili. Lungo tutti gli anni di scrittura, progettazione e preparazione di America oggi, attraverso una miriade di accordi finanziari e di aggiustamenti, io e Tess abbiamo discusso molto e abbiamo mantenuto una corrispondenza stabile. La sua maniera di accogliere le notizie ha modificato il mio atteggiamento verso le cose, e ho avuto la sensazione di avere a che fare, per suo tramite, direttamente con Ray. Tess è stata un’importante collaboratrice del film.


Ho letto tutta l’opera di Carver, metabolizzandola a modo mio. 
Il film è costruito con parti del suo lavoro che modellano sezioni di scene e di personaggi al di fuori delle componenti più elementari delle creazioni di Ray – nuovo, ma non nuovo. Tess e Zoe Trainer, una madre e una figlia il cui rapporto è totalmente sfasato sul piano emotivo e che sono interpretate da Annie Ross e Lori Singer, hanno provveduto ai passaggi musicali nel film — il jazz di Annie e il violoncello di Lori. Sono personaggi che abbiamo inventato io e Frank Barhydt, ma Tess Gallagher li sentiva in armonia con i personaggi di Ray, come se fossero usciti dal suo racconto «Vitamine». 
Qualcuno potrebbe definire «fosca» la visione del mondo che aveva Raymond Carver, e probabilmente anche la mia. Eravamo accomunati da uno sguardo simile sulla natura arbitraria del fato nello schema delle cose — il bambino dei Finnegan investito da un’automobile in «Una cosa piccola ma buona»; lo sconvolgimento del matrimonio dei Kane, causato dal ritrovamento di un corpo durante una battuta di pesca in «Con tanta di quell’acqua a due passi da casa». 
Qualcuno vince la lotteria. Lo stesso giorno, la sorella di questa persona muore per un mattone cadutogli addosso da un palazzo, a Seattle. Questi due avvenimenti sono la stessa cosa. Si vince alla lotteria in entrambi i casi. Le probabilità che entrambi gli eventi si verifichino sono minime, eppure sono accaduti tutti e due. Qualcuno è stato ucciso e qualcuno è diventato ricco; è un identico movimento. 
Uno dei motivi per cui abbiamo spostato le ambientazioni dalla costa settentrionale del Pacifico alla California del Sud è che volevamo localizzare l’azione in un vasto ambiente suburbano nel quale gli incontri fra i personaggi avvenissero fortuitamente. Dietro questa scelta c’erano anche delle considerazioni logistiche, ma volevamo che i collegamenti tra i personaggi fossero accidentali. Lo sfondo è una Los Angeles poco conosciuta, che è anche il territorio di Carver non Hollywood o Beverly Hills ma Downey, Watts, Compton, Pomona, Glendale — i sobborghi d’America di cui si sente parlare alla radio durante il bollettino del traffico. 
Ci sono ventidue attori protagonisti nel cast — Anne Archer, Bruce Davison, Robert Downey Jr., Peter Gallagher, Buck Henry, Jennifer Jason Leigb, Jack Lemmon, Huey Lewis, Lyle Lovett, Andie MacDowell, Frances McDormand, Matthew Modine, Julianne Moore, Chris Penn, Tim Robbins, Annie Ross, Lori Singer, Madeleine Stowe, Lili Taylor, Lily Tomlin, Tom Waits e Fred Ward —e hanno portato nel film cose che non avrei mai immaginato, dandogli spessore e ricchezza. Parte di tutto questo devo attribuirlo alle fondamenta di America oggi: i racconti di Carver.


Solo tre o quattro di questi attori sono apparsi sempre insieme nel film, perché ogni settimana cominciavamo una storia nuova, con un’altra famiglia. Ma abbiamo dato al cast tutti i racconti originali, e molti hanno proseguito nella lettura dei libri di Ray. La prima famiglia che abbiamo filmato sono stati i Piggott, Earl e Doreen, interpretati da Tom Waits e Lily Tomlin, nel loro parcheggio di roulotte e da Johnnie Broiler, una tipica tavola calda californiana dove Doreen fa la cameriera. La loro interpretazione è stata così magnifica che ho pensato che mi avrebbe creato dei problemi, ma tutti gli attori si sono mantenuti a quel livello, andando oltre oppure affiancandosi alle mie aspettative, impadronendosi dei propri ruoli e modificandoli. 
I personaggi raccontano un sacco di storie nel film, narrano aneddoti e piccoli avvenimenti delle loro vite. Molti di questi sono racconti dì Carver, o parafrasi dei racconti di Carver, oppure sono ispirati a racconti di Carver, così abbiamo cercato di mantenerci il più possibile vicini al suo mondo, dato l’imperativo di collaborazione del film. 
Gli attori hanno pure capito che i particolari di cui parlano i personaggi di Carver non sono la cosa più importante. Gli elementi sembravano flessibili. Avrebbero potuto parlare di qualsiasi cosa. Questo non per dire che il linguaggio non sia importante, ma che il soggetto non deve necessariamente essere X, Y o Z. Può anche essere Q o P o H.


È l’identità dei personaggi a determinare le loro risposte a quanto viene detto. Non è ciò che dicono a far succedere una scena, ma il fatto che quei personaggi stiano recitando quella scena. Così, che stiano chiacchierando della preparazione di un panino al burro d’arachidi o dell’omicidio del vicino di casa, il contenuto dei discorsi non è importante quanto il modo in cui i personaggi sentono e agiscono nelle situazioni, il modo in cui si trasformano. 
Scrivere e girare un film sono entrambe forme di scoperta. Alla fine, il film è questo, i racconti sono questi, e si spera che l’interazione sia fruttuosa. Già mentre giravo America oggi, certe cose sono nate direttamente dalla mia sensibilità, che ha le sue caratteristiche, com’è giusto che sia. So che Ray Carver avrebbe capito che dovevo fare qualcosa che andasse oltre il semplice omaggio. Nel film accade qualcosa di nuovo, e forse è questa la forma più sincera di rispetto. 
Comunque, tutto è partito da qui. Ero un lettore che sfogliava queste pagine. Che si misurava addosso queste vite.


Robert Altman


(prefazione di America oggi, di Raymond Carver ed. Minimum Fax ottobre 2009 - traduzione di Ludovico Orsini Baroni)

giovedì 6 settembre 2012

Il dono di Yoko Ono: coraggio, sorridete


Yoko Ono, prima di raccontarci delle tue campagne più recenti, potresti parlarci del progetto che fin dagli anni Sessanta è stato così importante per te e John Lennon? 

«Uno dei motivi per cui ho voluto che qui alla Digital Life Design Conference di Monaco, ci fosse un poster di War Is Over!” — il nostro progetto appunto — è che la guerra è finita se lo si vuole. Ci credo ancora fermamente. Penso che possiamo fare di più per venirci incontro. Io in qualche modo ho cercato di farlo per tutta la vita, invece di mostrare una scultura, in un museo, per poi guardarla e ammirarla — il che è comunque una bella cosa, nonché un modo di contribuire all’industria della pace — penso sia molto meglio partecipare assieme alla costruzione di un’opera. E per questo che faccio cose come l’Onochord, un dispositivo che dice letteralmente “Ti amo” — uno strumento sul quale premi ripetutamente un pulsante —. Ovunque vado mi dicono: “ti amo”. Ci sono molti modi in cui possiamo stabilire un rapporto, in maniera semplice, perché stiamo diventando persone sempre più timide, spaventate, e non sappiamo come comunicare tra di noi. Ma gran parte di quel che accade adesso è ancora molto bello». 

Ci fai qualche esempio? 

«Consideriamo il parto cesareo, che oggi è sempre più praticato: quando si nasce in modo naturale si passa attraverso un canale molto stretto e il cervello viene come schiacciato dalle cosce della madre. Questo è molto stimolante. E' un abbraccio della madre e al tempo stesso un modo in cui le diciamo addio. E' un momento molto intenso, ma quando si nasce con il taglio cesareo non si fa quest’esperienza. E non proviamo questo forte abbraccio neanche quando, pur nascendo in modo naturale, ci danno dei forti antidolorifici. Tutti i bambini che nascono ora — quasi tutti—pensano di aver perso quest’esperienza, che il loro cervello non abbia provato questa forte stretta e di non essere stati abbracciati con forza. Il cervello non è stato come spremuto, e il corpo continua a desiderare l’abbraccio, la stretta che non ha avuto. Che cosa fare? Dovremmo forse pensare che sia terribile, che non dobbiamo permettere che accada, che bisogna far crescere i bambini in modo naturale, lasciare che la madre soffra? In realtà stiamo andando in una direzione molto positiva. Tutto quello che succede in un certo senso è una benedizione. Il nostro pianeta è sovrappopolato e non avremo cibo a sufficienza per tutti, e al tempo stesso abbiamo questo incredibile, intenso desiderio di provare quell’eccitazione che avremmo dovuto provare all’inizio, ma abbiamo perso. Allora che cosa dobbiamo fare? Probabilmente siamo, tutti noi, pronti a entrare nell’universo e trovare un posto che sia molto interessante». 

Il concetto di «viaggio nell’universo» è menzionato anche dall’astronomo Dimitar. 

«Sì, vorrei però dire ancora qualcosa sulla nostra convinzione che il mondo stia diventando disumano. Crediamo che finiremo tutti per avere dei bambini in provetta. Ma sono convinta che stiamo diventando dei transformer spaziali virtuali. Siamo tutti transformer spaziali e lo sappiamo. Penso che ci trasformeremo. Continuiamo a dire: “Scompariremo e rimarranno solo gli scarafaggi!”. Beh, probabilmente sarà così, ma penso che siamo noi gli scarafaggi. Noi siamo gli scarafaggi, quindi non dobbiamo preoccuparci. In fondo, quando si pensa alle dimensioni dell’universo, immenso, non siamo più grandi di uno scarafaggio e ce la faremo». 

«Odissea di uno scarafaggio», l’installazione esposta a New York, Mosca, Londra e in altre città, è molto bella. 

«Ho realizzato una mostra intitolata così. Sapevo che quell’odissea era la nostra. Dobbiamo cominciare a pensare alla trasformazione che vediamo in atto ora. Forse avremo tanti robot che ci aiuteranno energicamente, ma per capire che questa è una benedizione, dobbiamo vedere che è una trasformazione e che non c’è nulla di male in questo».


Penso alla tua ultima visita a Monaco, quando abbiamo lavorato assieme a «Utopia Station» con Molly Nesbit e Rirkrit Tiravanija, invitati da Chris Dercon alla Haus der Kunst. E’ stata la prima volta che hai presentato l’Onochord. 

«Sì, è vero... Monaco è la città in cui ho presentato per la prima volta il mio Onochord. Serve a tornare a comunicare con la sente, ma senza sentirsi in imbarazzo. E molto difficile dire ‘ti amo’, ma se si ha qualcosa come questo dispositivo, che lo dice per nostro conto, è più semplice». 

«Utopia Station» mi ricorda anche «Nutopia». Hai detto che per te è importante permettere alle persone di essere diverse e tu hai creato un posto che si chiama Nutopia. Ce ne parli? 

«L’utopia è un’idea molto antica. Con il nostro progetto l’abbiamo rinnovata. Nutopia — un Paese concettuale fondato da me e Lennon negli anni Settanta, privo di confini e passaporti — è un’utopia molto differente, nel senso che tutti ne facciamo parte. Tu sei un nutopista. Quando decidi di esserlo, lo diventi. Mio marito aveva una piccola etichetta, una targhetta che diceva Nutopian Embassy, che ha attaccato alla porta della nostra cucina. Diceva che eravamo un’ambasciata di Nutopia, ma tutti lo sono. Facciamo tutti parte di un Paese nutopista». 

Sarebbe interessante parlare del tuo lavoro pionieristico in Internet e con le forme di arte digitale. Ricordo la prima volta che ho visto il tuo lavoro in Rete. Era l’inizio degli anni Novanta e avevi scritto cento istruzioni, un’istruzione al giorno da seguire su Internet. 

«Sai, quando Marshall McLuhan ha affermato che “il medium è il messaggio’ mi ha molto preoccupata e gliel’ho detto. Ricordo di avergli fatto presente che non voglio che il mondo sia così. Penso che, al contrario, il messaggio sia il medium. Non si deve dimenticare il messaggio. Ma ovviamente i media sono interessati alle persone ed interessano ad esse, sono così “grafici’ ed eccitanti e forse anche un po’ pornografici. Il messaggio non è così affascinante, ma è la cosa vera, la base della nostra vita». 

L’idea di scrivere delle istruzioni non è ovviamente nata nel 1996. In quell’anno l’hai solo messa su Internet. Ma con questo hai influenzato generazioni di artisti. 

«Ho fatto cento eventi digitali per cento giorni e ogni giorno aveva la sua piccola istruzione. La cosa è piaciuta perché ci si alzava la mattina pensando “qual è l’istruzione di oggi?. Il fatto è che quando il medium è il messaggio, tutto quel che devi fare è guardarlo passivamente come un sacco di patate. Ma quando al centro si colloca il messaggio, sei tu a dover agire. Credo fermamente che noi tutti abbiamo un’incredibile super potenza e che per sopravvivere dobbiamo risvegliarla». 

Questo è il messaggio che hai cominciato a diffondere con il libro «Grapefruit». Negli anni Novanta mi hai detto che tutto quello di cui parlavi negli anni Sessanta si sta verificando ora. Com’è nata l’idea delle tue mostre planetarie con le «Istruzioni», che risalgono a molto tempo fa, alla tua infanzia in Giappone? 

«Quando ero molto piccola ho cominciato ad avere queste idee che erano un po’ come degli Haiku, delle brevi forme poetiche. Erano delle specie di Istruzioni”, di cose che la gente poteva fare». 


Un paio di anni fa hai fatto quella bellissima mostra a Venezia dove hai avuto l’idea di moltiplicare le stanze.
  
«A Venezia mi avevano dato solo sei stanze, e potevo mettere cose solo in quello spazio. Ho pensato che non fossero sufficienti. Così vi ho aggiunto 100 stanze concettuali, ed è stato molto interessante perché la mia esibizione era l’unica ad avere 106 di questi luoghi dove esibirsi». 

John diceva spesso che avevi una gran quantità di idee; le idee ti venivano come se fossi sintonizzata con qualche radio ultraterrestre. In un certo senso le «Istruzioni» hanno a che fare con questa miriade di idee di diverse opere d’arte. Mi hai detto che scrivendo le istruzioni di un’opera d’arte in un certo senso delegavi il risultato ad altri, che ti sgomberavi la testa e ti liberavi di esse. 

«All’origine delle “Istruzioni” ci sono due ragioni. Intanto, le idee che mi venivano erano così enormi che non sarei riuscita a realizzarle, così ho cominciato a scriverle. Ma mi piace anche l’ipotesi di non offrire nulla di definito. Potevo ricevere idee molto belle, creative, mentre vedevo altre persone seguire quelle istruzioni ».

Poi, dopo le «Istruzioni online», hai cominciato a lavorare ai «Desideri online». Il progetto sui «Desideri» risale a molto prima e anticipa l’era di Internet: hai realizzato una torre della pace. 

«Sì, in Islanda c’è l’Imagine Peace Tower, installazione fatta con la luce. E importante che tutti esprimano dei desideri e che essi siano inviati all’Imagine Peace Tower. In un certo senso è un modo per desiderare tutti assieme. Penso sia una cosa molto potente, e un giorno otterremo quel che abbiamo desiderato». 

Il progetto è anche su Second Life. Ce ne puoi parlare? 

«Su Second Life c’è un video, ma penso che l’Image Peace Tower islandese, dove possiamo mettere i nostri desideri, sia molto potente. Credo nel potere delle vibrazioni, è l’unica cosa che ci permette di sopravvivere, avere un’incredibile forza positiva. Speriamo di riuscirci». 

Nelle tue mostre ci sono stati per molto tempo gli alberi dei desideri. Ne hai raccolti a migliaia... 

«Penso che abbiano superato il milione». 

Penso a un altro tuo progetto: il progetto del sorriso. Ha avuto inizio sempre negli anni Sessanta. Realizzare un film che fosse una mappa dei volti sorridenti di tutti gli esseri umani del mondo. Ora lo stai realizzando. 

«Ci sarà un posto in cui arrivare, sedersi e sorridere e il volto sorridente sarà fotografato e poi tutti i sorrisi saranno inviati ovunque nel mondo e nell’universo». 


Sulle Istruzioni, il testo comincia con «Sorridere semplicemente sollevando le estremità della bocca», poi prosegue dicendo «Sorridere con gli occhi e con la bocca» e continua con «Sorridere dallo stomaco» e «Sorridere dalle ginocchia». Ci puoi dire di più? 

«Quando mio marito è morto, mi guardavo allo specchio e pensavo che non ce l’avrei mai fatta, credevo che mi sarei ammalata. E non potevo permettermelo perché mio figlio dipendeva da me. Così ho cercato di sorridere allo specchio. All’inizio era molto difficile. Mi dicevo: “È una cosa falsa”. Ma poi ho cominciato a sorridere. Mi sono sforzata di farlo e alla fine mi sono accorta che non stavo sorridendo solo con la bocca o con gli occhi. Ho cominciato a sorridere con il petto e con lo stomaco e poi con tutto ll corpo. E stata una sensazione fantastica e ho pensato che dovevo dirlo alla gente, potevamo sorridere tutti insieme. 
Spesso noi pensiamo che ci sia un conflitto. A ben guardare, ci si accorge che siamo tutti esseri umani e che non siamo veramente in conflitto. Lo scopriamo quando riusciamo a parlare, a comunicare tra di noi, o quando ci abbracciamo, ci baciamo, facciamo l’amore. È molto importante stabilire un rapporto. Quando non riusciamo, allora ovviamente c’è un conflitto. il fatto di non avere un rapporto è già un conflitto». 

In definitiva, «all you need is love» ancora oggi? 

«Alla fine tutto quel che occorre è l’amore. So che direte, “Oh, che idee anni Sessanta!”. Ma è vero, questo è tutto quel che ci serve. Ora non ne abbiamo molto. Pensiamo che il petrolio sia importante e che non abbiamo abbastanza energia. Ma dobbiamo pensare alla nostra energia. Dobbiamo anzitutto mettere in moto la nostra energia, ed è amore».


Yoko Ono intervistata da Hans Ulrich Obrist, Gennaio 2012 (traduzione: Maria Sepa)