venerdì 4 gennaio 2013

La vera vita di Sebastian Knight, di Vladimir Nabokov / Un saggio di Giorgio Manganelli



No, non so giocare a scacchi; sono goffo con le parole incrociate che non siano di insultante povertà («capitale del Portogallo»); e i rebus sono per me, appunto, dei rebus; aggiungerò — la mia onestà critica è patologica — che non so nulla delle farfalle, che provo nei loro confronti un vago sentimento di ammirazione, di inferiorità, di irritazione. Non sono limitazioni da poco, ed è probabile che siano radicalmente negative per un lettore di Nabokov, grande specialista di scacchi e amoroso di lepidotteri, se le farfalle sono lepidotteri, e anzi scopritore di una razza che ha eternamente consacrato con il suo nome un poco operistico di nobile russo.

Di Vladimir Nabokov, di Pietroburgo, morto nel 1977 a Montreux — un luogo molto nabokoviano per decedere — viene ora ristampato un breve, squisito romanzo: La vera vita di Sebastian Knight. 

Il libro apparve in inglese nel 1941; e già appartiene a quella serie che Nabokov non ritradusse, rifacendoli, dal russo: infatti Nabokov, come il solito Conrad, e il meno consueto Ruffini (qualcuno deve aver pur letto il risorgimentale Lorenzo Benoni), è un perfetto, raffinato, del tutto agiato scrittore in inglese, lingua imparata su grammatiche e da governanti. 

Ho parlato di scacchi e farfalle; e poiché questi temi, direttamente e indirettamente, appaiono in tutti i libri di Nabokov, penso che la ricorrenza di quelle eleganti, assurde, fragili immagini abbia molti e allusivi significati: tra incubo e visione. Ma in primo luogo vorrei indugiare su questa Vera vita: e sono certo che scacchi e farfalle troveranno il modo di venirci incontro. Poiché Nabokov è interessato non tanto alla narrazione, quanto al programma, al disegno del romanzo, la sua macchina, dovremo in primo luogo occuparci di questa. Una definizione decorosa di questa macchina potrebbe essere: complicata e inutile. 

I due aggettivi vanno goduti in coppia: infatti, non è impossibile, con un ragionevole spreco di talento, costruire una macchina complicata né mancano persone cui l’inutilità è una seconda natura. Ma qui il complicato e l’inutile si sposano, ed è un matrimonio insieme d’amore e di interesse; per amore, naturalmente, intendo piuttosto libidine che languore: niente «cuore». 
Il libro ha un tema che, oggi, può sembrare lievemente audace: il fratellastro di Sebastian Knight, geniale scrittore morto in giovane età, tenta di scriverne la vita; in teoria, il libro dovrebbe essere una biografia immaginaria: non lo è. E l’autobiografia del fratellastro durante i suoi tentativi di trovare materiale per questa Vera vita. Per conseguire questi risultati egli dovrà fare delle «mosse» — ecco gli scacchi. Cercherà, come un lento, peritoso e lucido giocatore, di cogliere gli indizi, sempre minimi, spesso ingannevoli; e le sue mosse risulteranno sterili, futili. 

In un passo del suo saggio Gogol, Nabokov aveva dichiarato la sua devozione alla fantasia «futile»; la pura fantasia che si muove in un vuoto, e non attinge né inventa significati. Essa è futile come un ozioso segno tracciato nell’aria; ma sterile significa qualcosa d’altro — anche questa parola è di Nabokov. Lo sterile è il non motivato, il gratuito, il frigido, l’esatto; sterile è la mossa degli scacchi che autodistrugge il proprio movimento di volta, come il libro si consegna al nulla, man mano che ne volgiamo le pagine. C’è nella sterilità una ferma volontà di non collaborare alla vita, al confuso e torbido intrico di significati che ne tiene assieme la mole disordinata; ma la sterilità non è morte, piuttosto una squisita e feroce astuzia per appartarsi. 

Per ricostruire quella Vera vita il fratellastro esegue alcuni tentativi: ha degli incontri, trova degli oggetti, e dovunque crede di riconoscere una indicazione definitiva, che non può esistere. In primo luogo lo stesso Sebastian Knight è estremamente elusivo; non lascia testi che non siano definitivi, l’unico esempio sopravvissuto di una pagina non definitiva reca, assieme, tutte le possibili varianti di una frase, senza cancellazioni; non parla mai di letteratura — e saggiamente, giacché parlarne con « gli altri » significa ammettere di essere vivo, ed è una ammissione pericolosa, per uno scrittore; le lettere che lascia nello scrittoio alla sua morte sono annotate, «da bruciare»; ed è proprio bruciando quelle lettere che il fratellastro coglie su di un foglio, che rapido si accartoccia e svanisce, poche parole; ma sono parole di donna, e scritte in russo. Ironicamente, il nulla, lo sterile, esegue una mossa inutile e consegna un indizio futile. 

Sebastian Knight è stato un solitario: e le persone che l’hanno conosciuto, amici di collegio, un losco segretario, una donna, non ne hanno più che sfiorato l’esistenza, la sua inutilità casuale ed eroica. Gli amici hanno ricordi irrilevanti, forse inesatti; il segretario, che sta a sua volta scrivendo una Vita di Knight, raccoglie aneddoti che sono la prova di una sistematica beffa che lo scrittore esercitò ai danni del segretario. Così, Sebastian un giorno gli racconta, appena velato, l’Amleto di Shakespeare come una dolorosa, traumatica memoria della sua adolescenza. Una donna certamente l’ha amato; ma protetta da un matrimonio, ed ancor più dalla morte imminente — morte di parto, vittoria della sterilità —, esclusa dalla miopia, la distrazione, il disorientamento, non può dire nulla, non sa più nulla, ha veramente consegnato al nulla il profilo dell’uomo amato; e la misteriosa autrice di quella frase russa, cercata accanitamente, porta il fratellastro a incontrare una donna frivola, leggera, fantastica, che riesce per qualche tempo a fingersi l’amica della «donna» di Sebastian Knight. 

Restano, dunque, i libri di cui Knight è autore; specie uno, Oggetti smarriti, che è « largamente autobiografico». Ma poiché è un romanzo, anche i ricordi sopravvivono come finzione; perdono vita e acquistano inutilità. Dunque, la forma del romanzo è questa, un autore scrive un libro su di un autore che vorrebbe scrivere un libro su di un autore il quale, incidentalmente, ha avuto in animo di scrivere una biografia fittizia; di questo autore praticamente non si hanno notizie che non siano ingannevoli o tautologiche, e anzi l’unica vera «notizia» è che Sebastian, scrittore, ha scritto dei libri. 

Qui il gioco si complica: di ciascun libro viene data qualche informazione; talora si racconta la trama e almeno una, del romanzo Successo, è talmente affascinante da porci la domanda perché mai Nabokov non abbia scritto quel libro, invece di riassumerlo. Oltre ai riassunti, ci sono le citazioni, ampie e significative, dalle quali si nota che Sebastian scrive una prosa colorata, mentre quella del fratellastro è un poco più dimessa, e quella di Nabokov è più gelida; e un poco dell’ingegnoso gelo di Nabokov si insinua dovunque. 
S’è detto che la donna che sembra più prossima alla «verità» è in realtà un puro inganno; e dove il gusto drammatico per il doppio, lo scambio, la mistificazione definitivamente trionfa è nel racconto della morte di Sebastian Knight. Avvisato da un laconico telegramma, il fratellastro parte per...; è già in viaggio quando si accorge di non rammentare il nome della località; sarà il disegno di una scacchiera a rammentargli quel nome, St-Damier; quando arriva, viene lasciato entrare a trascorrere alcune ore in una stanza buia, dove un uomo addormentato respira faticosamente; è un momento di delicata, aurorale speranza. Quell’uomo è vivo. Ma hanno sbagliato stanza: quel malato ha in comune con Knight solo la « K » iniziale, è la sua controfigura sulle soglie dell’Ade; mentre il fratellastro vegliava la controfigura che lentamente ritornava alla vita, Sebastian giaceva già morto in una stanza della clinica. 


Non è un finale patetico; anche Knight è stato cancellato, perduto, resisterà la sua notturna immagine speculare, l’anima sosia che si è salvata, pronta a ulteriori inganni. 
Questo libro breve e «leggero » — pare avere la consistenza ingannevole del sughero — è in realtà un libro astutamente ambizioso; il suo obiettivo a me sembra quello di costruire un tessuto di parole — mi ripugna chiamarlo «romanzo» — attorno a un punto vuoto, una assenza, un luogo mentale, indefinibile. Questa assenza contiene, inoltre, un ulteriore gioco, quasi un pun, una astuzia verbale. La vita di Sebastian Knight, quella «vera», è perduta, perché nessun indizio porta al centro; lo scrittore è una larva, una immagine simile a quelle che si colgono prima del precipizio del sonno. Ma vi è dell’altro: lo scrittore non possiede il tempo come serie; il tempo è un luogo matematico nel quale si raccoglie tutto ciò che altri chiamerebbe «il mondo». 

« Per Sebastian » scrive «non era mai il 1914, il 1920, o il 1936 — era sempre l’anno 1». «Non credo nel tempo» aveva scritto in Parla, memoria; e nello stesso libro aveva annotato: « Lo scienziato vede tutto ciò che accade in un unico punto dello spazio, il poeta sente tutto ciò che accade in un unico punto del tempo». In quanto scrittore, la sua Vera vita è istantanea, non ha data, né un prima né un dopo, « l’anima è solo un modo di essere — non uno stato costante,» scrive nelle ultime pagine della Vera vita: «ogni anima può essere la tua se ne scopri e ne segui le ondulazioni». Dunque, non v’è altro modo di scoprire la «vera vita» di Sebastian Knight, uomo-punto di tempo, che penetrare in quel luogo senza misura. 
«La mascherata volge alla fine», leggiamo nelle ultime righe. Nabokov, scegliendo la sterilità, e l’inutilità, ha scelto anche il travestimento, la mistificazione, l’errore, il fantasmatico, e di qui, e solo di qui, escono alcune delle sue pagine memorabili, come Invito a una decapitazione, capolavoro di rara, inquietante ambiguità; e vorrei, come gioco incidentale, rievocare una bizzarra e freddamente angosciosa invenzione nabokoviana: che i morti, le loro ombre e fantasmi, siano travestimenti, consolatori e beffardi inganni, emotive somiglianze indecifrabili nel costante buio. 

Vorrei concludere tornando ai temi emblematici degli scacchi e delle farfalle; sempre in Parla, memoria, si incanta a descrivere questa arte, «bella, complessa e sterile» , dalla qualità poetico-matematica, fonte di letizia faticosa e astratta; la scacchiera è un « campo magnetico, un sistema di forze, di abissi, un firmamento stellato». E imparentato, questo gioco, ad altre bizzarrie creative: dalla cartografia medita di mari perigliosi, alla lucida e demente costruzione di «incredibili romanzi», irti di regole vessatorie e arbitrarie, e deliberati incubi. 
Le farfalle: lo scrittore è affascinato da due qualità supreme: la mistificazione — la «mascherata» — e l’eccesso; le due qualità si mescolano; per mentirsi altra cosa, o insetto o foglia, la farfalla si trasforma; ma il gusto della metamorfosi è sfrenato, barocco, del tutto privo di rapporto con la ragionevole astuzia al servizio della sopravvivenza; la farfalla non è solo un prezioso inganno, è esuberanza e lusso; è «inutilità». «Scopersi nella natura le gioie non utilitarie dell’arte. Entrambe erano una forma di magia, un intricato gioco di incantesimo e di inganno». E confrontando diapositive e microscopio, annota: «Nell’equilibrio delle grandezze del mondo pare esservi un punto cui si perviene rimpicciolendo quello che è grande, e ampliando ciò che è piccolo; ed è un punto intrinsecamente artistico». 

Mi accorgo di aver scritto di Vladimir Nabokov senza aver mai nominato Lolita, il romanzo erotico per cui egli è socialmente, storicamente, «l’autore di Lolita». Visto nella prospettiva dell’inutile, dello sterile, del travestimento, Lolita, capolavoro di «veleni retorici» (vedi la prefazione di Disperazione), diventa un libro stranamente deforme, un’ardua anamorfosi. Come tutti i libri di Nabokov, non ha messaggi, né idee: « non sono un cane » aveva scritto una volta «che corre da voi scodinzolando, con una verità in bocca».

Giorgio Manganelli, postfazione a La vera vita di Sebastian Knight, ed. Adelphi - 1992

     

Sebastian Knight è un giovane scrittore nato in Russia e successivamente trasferitosi in Inghilterra (lo stesso percorso linguistico di Nabokov). Muore precocemente lasciando alcuni romanzi, racconti e qualche lettera. Il fratellastro, V., decide di scriverne la 'Vera' vita. Ma tutte le piste e le traccie sono ambigue, doppie; la ricerca gira a vuoto attorno alla perversa sensazione che l'autore di 'Successo' sia uno, nessuno e centomila. Questa è una delle pagine più belle, V. disquisisce sul fantomatico romanzo 'Oggetti smarriti': le lettere ritrovate nel disastro aereo sono magnifici esempi del linguaggio figurato nabokoviano.
(LT)


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"Oggetti smarriti, che Sebastian aveva iniziato proprio in quel periodo, pare una specie di sosta nel suo viaggio letterario di esplorazione: una pausa in cui si tirano le somme, si contano le cose e le anime perdute per strada, si fa il punto geografico; i sonagli di cavalli dissellati che pascolano nel buio; il bagliore del fuoco del bivacco; la volta stellata. 

In questo libro c’è un breve capitolo in cui si parla di un disastro aereo (il pilota e tutti i passeggeri, tranne uno, erano rimasti uccisi); il superstite, un inglese piuttosto anziano, fu ritrovato da un contadino a una certa distanza dal luogo della sciagura. Era seduto su un sasso, tutto raggomitolato — l’immagine stessa del dolore e dell’infelicità. «Una brutta ferita?» domandò il contadino. «No,» rispose l’inglese «mal di denti. Ce l’ho da quando sono partito». In un campo venne ritrovata una mezza dozzina di lettere, sparse qua e là: tutto ciò che restava del sacco della posta aerea. Due erano lettere d’affari, molto importanti; una terza era indirizzata a una donna ma cominciava così: «Egregio Mr. Mortimer, in risposta alla sua del 6 corrente... » e riguardava un’ordinazione; una quarta conteneva gli auguri per un compleanno; una quinta era la lettera di una spia con il suo ferreo segreto celato in mezzo a un mucchio di chiacchiere; e l’ultima era una busta, indirizzata a un’azienda commerciale, che conteneva la lettera sbagliata, una lettera d’amore. 

«Questo ti farà soffrire, mio povero amore. Il nostro picnic è finito; la strada è buia, piena di buche, e sull’auto il bambino più piccolo comincia a sentirsi male. Un povero sciocco ti direbbe: devi essere coraggiosa. Ma qualunque cosa io possa dirti per farti animo o consolarti sarà come una minestrina insipida — tu sai quello che voglio dire. Tu l’hai sempre capito. La vita con te è stata incantevole — e quando dico “incantevole” intendo canti e voli e viole, e quella morbida, rosea “v” nel mezzo, e quelle sillabe sulle quali si curvava indugiando la tua lingua. La nostra vita insieme è stata allitterativa, e quando penso a tutte le piccole cose destinate a morire, ora che non le possiamo più condividere, sento come se fossimo morti anche noi. E forse lo siamo. Vedi, quanto più grande era la nostra felicità, tanto più sfumavano i suoi bordi, come se i contorni si sciogliessero, e ormai essa si è dissolta del tutto. Non ho smesso di amarti; ma qualcosa è morto in me, e nella nebbia non riesco a vederti... Questa è tutta poesia. Io ti sto mentendo. Vigliacco. Niente è più vile di un poeta che mena il can per l’aia. Credo tu abbia intuito come stanno le cose: la solita dannata formuletta, “un’altra donna”. Con lei sono disperatamente infelice — ecco, questo almeno è vero. E penso non ci sia molto altro da aggiungere su questo lato della vicenda»

«Non posso fare a meno di pensare che nell’amore ci sia qualcosa di essenzialmente sbagliato. Tra amici si litiga o ci si perde di vista, e anche tra parenti stretti, ma non c’è questo spasimo, questo pathos, questa fatalità che sta attaccata all’amore. L’amicizia non ha mai l’aspetto di una condanna. Perché, cosa succede? Non ho smesso di amarti, ma poiché non posso continuare a baciare il tuo caro, pallido volto, dobbiamo lasciarci, dobbiamo lasciarci. E perché? Perché l’amore è così misteriosamente esclusivo? Si possono avere mille amici, ma si deve amare una sola persona. Non è il caso di parlare degli harem: io sto parlando della danza, non della ginnastica. O si può forse immaginare un portentoso turco che ami ognuna delle sue quattrocento mogli come io amo te? Quando dico “due”, ho già cominciato a contare e non vi è più limite. Esiste solo un numero vero: Uno. E l’amore, a quanto pare, è l’esponente migliore di questa unicità»

«Addio, mio povero amore. Non ti dimenticherò mai e non metterò mai un’altra al tuo posto. Sarebbe assurdo da parte mia cercare di, persuaderti che tu eri l’amore puro e che quest’altra passione è solo una commedia della carne. Tutto è carne e tutto è purezza. Ma una cosa è certa: con te sono stato felice, e ora sono infelice con un’altra. E così la vita andrà avanti. Continuerò a scherzare con i colleghi d’ufficio, a godermi le mie cene (fin quando non mi verrà la dispepsia), a leggere romanzi e a scrivere versi, a tener d’occhio il listino della Borsa — e in generale a comportarmi come mi sono sempre comportato. 
Ma questo non significa che sarò felice senza di te... Ogni piccola cosa che mi riporterà il ricordo di te — l’occhiata di disapprovazione per i mobili delle stanze dove tu hai riordinato i cuscini e parlato con l’attizzatoio, ogni piccola cosa che abbiamo scoperto insieme — mi parrà sempre la metà di una conchiglia, la metà di una moneta, di cui tu custodisci l’altra metà. Addio. Vattene, vattene. Non scrivere. Sposa Charlie o un altro qualsiasi brav’uomo con una pipa tra i denti. Dimenticami per ora, ma ricordami dopo, quando l’amaro sarà dimenticato. Questa macchia non è dovuta a una lacrima. Mi si è rotta la stilografica, e sto usando una lurida penna in questa lurida camera d’albergo. Fa un caldo terribile, e non sono riuscito a concludere l’affare che avrei dovuto portare “a una soluzione soddisfacente”, come dice quell’imbecille di Mortimer. Credo tu abbia un paio di libri miei ma non è importante. Per favore, non scrivere. L. ». 

Se togliamo da questa lettera fittizia tutto ciò che riguarda specificamente il suo presunto autore, credo che in essa vi sia molto di quello che Sebastian può aver provato per Clare, o magari averle scritto. Aveva la curiosa abitudine di attribuire ai suoi personaggi, anche ai più grotteschi, questa o quella idea o impressione o desiderio con cui lui stesso poteva essersi baloccato. La lettera del suo eroe può anche essere stata una sorta di codice in cui esprimeva alcune verità circa i suoi rapporti con Clare. Ma non mi viene in mente il nome di un altro scrittore che abbia fatto uso della propria arte in maniera così sconcertante — sconcertante per me, che potrei voler vedere, dietro lo scrittore, l’uomo vero. E' difficile distinguere la luce di verità personale in mezzo allo scintillio di una natura immaginosa, ma quello che è ancora più difficile da capire è il fatto stupefacente che un uomo che sta scrivendo di sentimenti provati davvero in quegli stessi istanti possa aver avuto il potere di creare simultaneamente — e proprio ispirandosi alle cose che lo turbavano — un personaggio fittizio e vagamente assurdo."

(Vladimir Nabokov, La vera vita di Sebastian Knight, ed. Adelphi - 1992, Traduzione di Germana Cantoni De Rossi)

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