martedì 30 maggio 2017

Donald Fagen, dal Volo Notturno agli Steely Dan - intervista di Massimo Cotto


«Il viaggio è tutto, nella musica.
La grande musica è quella che non si accontenta di condurti fuori dal mondo e di trasportare la tua mente altrove, ma quella che ti fa diventare protagonista del viaggio. Allora non sei più un semplice ascoltatore che segue con passione più o meno grande il viaggio di qualcun altro, ma entri nella storia stessa, aggiungendo nuovi elementi. L'immaginazione è parte fondamentale del rock ed è fondamentale che il rock venga veicolato da mezzi come la radio perché è lì che l’immaginazione ha carta bianca, è lì che l’ascoltatore diventa co-autore: in assenza di immagini è lui a costruirle sulla base della canzone. L’artista dà la traccia, il fruitore la segue e insieme giungono all’assassino».


A volte ritornano. E, come ogni assassino che si rispetti, ritornano sempre sul luogo del delitto. Anche se si fanno attendere 11 anni.
Tanti ne sono passati da The NightfIy (1982), straordinario viaggio notturno sulle ali di un’America perduta e addormentata sulla musica, a Kamakiriad (1993), viaggio nel cielo del futuro per meglio diradare le nebbie del presente. Altra corsa, altro regalo, come nei luna park dei bambini. E il regalo è una musica bella e intensa che sintonizza il respiro al battito del jazz, al sussurro del soul, al ritmo del rock e del funk; che farà parlare di sè anche se probabilmente non otterrà le sette nomination ai Grammy Awards e i riconoscimenti a non finire che sono piovuti addosso al precedente.
Forse però era meglio non vederlo, Donald Fagen. Lasciare che anche qui fosse l’immaginazione ad avere carta bianca, a costruire, in assenza d’immagini che non fossero le copertine dei suoi due dischi, la nostra immagine di lui. Da vicino, la metà degli Steely Dan non ha nulla del disc-jockey bello e affascinante di The Nightfly, in cravatta e camicia sbottonata, in uno studio radiofonico davanti a un microfono, un pacchetto di Chesterfields, un disco dì Sonny Rollins e un piatto d’altri tempi. E ha poco dell’intrigante turista per caso di Kamakiriad, occhialini da aviatore giubbotto bianco e maglia scura. Da vicino, in felpa blu, jeans e scarpe da basket, appesantito da una faccia gonfia e da una pancia che fanno un po' tristezza, Donald Fagen sembra una rana. O un rospo, che si tramuta in principe solo se baciato dalla musica, ma che attende la sua principessa al centro dello stagno dove è più difficile arrivare. In questi ultimi due lustri, infatti, abbiamo avuto molte notizie, pettegolezzi e voci su di lui, ma pochissimi fatti: qualche produzione, una manciata di articoli di critica musicale scritti per “Premiere”, un pugno di non riuscitissime collaborazioni a colonne sonore come “Le Mille Luci Di New York”, un paio di altre episodiche sortite. 


L'unico nocciolo di questo decennio senza centro era rappresentato dall'estemporaneo lavoro con la “New York Rock And Soul Revue”.

«L’idea è nata in seguito alle insistenze della mia compagna Libby Titus, che produce piccoli spettacoli di cabaret e musica. Mi chiese dapprima se fossi intenzionato ad allestire uno show di jazz blues con Mac Rebennack (Dr. John); poi, dopo aver constatato il mio divertimento, se mi interessasse organizzare una serata in omaggio di Bert Berns e Jerry Ragovoy, due grandi songwriter newyorkesi che stimo da sempre. Convocammo un gruppo di artisti, che comprendeva fra i tanti Michael McDonald. Phoebe Snow, Boz Scaggs e Charles Brown dei Rascals. L'intenzione era di fare tutto in famiglia, tra pochi amici, ma la notizia si sparse velocemente e fummo quasi costretti a suonare in locali sempre più capaci. All’inizio ignoravo le richieste del pubblico, che mi domandava a gran voce vecchi brani degli Steely Dan, poi mi dissi: ‘perché no?’. Cominciai da ‘Pretzel Logic” e andai avanti. Direi quasi che ci presi gusto. Ero rimasto lontano dalle scene per troppo tempo. Era ora di tornare. Terminai il disco e mi ripresentai. Finalmente».

L'omaggio a Berns - di cui citiamo solo quattro dei suoi mille successi: “Twist And Shout”, “Piece Of My Heart”, “Everybody Needs Somebody To Love” , “Under The Boardwalk” - e a Ragovoy - “Time Is On My Side”, “Cry Baby” e decine d’altri brani senza tempo - fu dunque il trampolino per il ritorno. Così, oggi, finalmente è nei negozi il nuovo album di cui sì parla da secoli (Fagen cominciò a lavorarci nel 1987). Ma perché un’attesa così lunga? Che cosa è successo in questi 11 anni?


«Dopo The Nightfly ho conosciuto per la prima volta il blocco dello scrittore. Avevo inserito in quell’album tutto ciò che sapevo e volevo dire o fare. Mi sentivo come prosciugato. Mi ci è voluto del tempo per riempire quel senso di vuoto. Non mi hanno aiutato gli anni Ottanta, così poco suggestivi, torse gli anni più brutti dei quattro decenni del rock. Inoltre: avvertivo forte la necessità di vivere fuori dal mio lavoro, quando fino ad allora avevo vissuto del mio lavoro. Decisi così di allontanarmi per un po’, per provare altre esperienze, ma, anziché trarne giovamento, entrai in una lunga fase critica. Ho conosciuto la depressione e la terapia. Ne sono venuto fuori, almeno credo, ma non avrei mai immaginato che sarebbero stati necessari 11 anni. A volte fatico a crederci».

L’illusione che non sia vero, che non sia passato più d’un mese da The Nighffly dura il tempo di una canzone, la prima, “Trans-Island Skyway”; poi emergono le molte differenze. Kamakiriad è più aggressivo, meno dolce, meno jazzato, meno immediatamente pop. Sembra un tentativo di addizionare il soul degli anni Settanta, saltando a pie’ pari gli Ottanta, per ottenere come risultato una elitaria dance music dei Novanta.

«Musicalmente parlando, Kamakiriad è molto più semplice di The Nightfly. So che in apparenza è proprio il contrario, ma in questo disco ho tentato di pulire il suono. Il problema di molta musica di oggi è che è un prodotto della tecnologia prima ancora che di una mente umana. La tecnologia è importante e preziosa quando è l’uomo a usarla. La possibilità dell’uomo di utilizzare macchine che imitino la voce umana o gli strumenti è un ottimo punto di partenza per ottenere grandi risultati, per vedere nuove frontiere. Molte volte però, l’uomo si lascia purtroppo schiavizzare dalla macchina e diventa lei a scrivere il brano. Le macchine esistono per servire l’uomo, non per diventare sue padrone. Così, in Kamakiriad, invece di riempire di overdubs lo spazio di una canzone ho provato a dare area ai ritmi, se mi concedi l’espressione. La gente è stanca di album dalla produzione pesante, dagli arrangiamenti complessi e dai suoni gonfi. La musica non è solo data dai suoni, ma dallo spazio tra i suoni. È lì che molte volte trova spazio l’emozione».

Belle parole, bellissima filosofia. Per la verità, il risultato non è sempre pari alle intenzioni (o forse è solo il confronto impari con la perfezione assoluta di The Nightfly?), e a volte il motore tossisce e stenta a macinare miglia. E’ soltanto un caso che la porzione di viaggio più affascinante sia quella che fa sosta fra le dune di “On The Dunes”, ballata di desolazione e jazz che risale, unica fra le canzoni appena pubblicate, all’epoca del Volo Notturno? Ma di viaggio si tratta, e non sempre, si sa, i viaggi sono privi di dolore. Che sia un volto diverso, lo si capisce fin dai mezzi di locomozione enunciati nei rispettivi brani d’apertura.
“l.G.Y” evocava il treno, mezzo adattissimo ai sogni e alle fantasie di chi era cresciuto nei remoti sobborghi di una città della costa orientale d'America nei tardi anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, “Trans-lsland Skyway” introduce la Kamakiri, macchina da sogno costruita per il nuovo millennio, motore interamente a vapore, fattoria biologica interna autosufficiente (!) per garantire ogni giorno prodotti freschi e genuini, possibilità praticamente illimitate.

«The Nightfly era un viaggio nel passato, nella mia infanzia e adolescenza. La gente lo ha interpretato come un omaggio alla musica che amavo e che mi aveva influenzato, ma non era solo quello. Nel 1982 ero giovane, ricco e famoso, ma il continuo lavoro mi aveva fatto saltare una buona parte della mia giovinezza. Per anni avevo lavorato sempre, anche di domenica, a Pasqua, a Natale, Così, per esorcizzare quella strana sensazione di aver perduto una parte della mia vita, ho provato a ricostruirla in un disco. Un viaggio guidata da Lester the Nightfly un disc-jockey di fantasia che molto mi assomigliava. Ma, una volta completato il disco, provai un’altra brutta sensazione, quella di essermi esposto troppo, di aver rivelato troppo di me. Ero di nuovo nei guai, questa volta seri. Kamakiriad è meno personale, anche perché ambientato nel futuro. Questa volta rischio di meno. Non credo resterò fermo altri 11 anni».

L'azione si svolge in un punto imprecisato del secondo millennio. Il viaggiatore. la cui macchina avveniristica è collegata con il satellite Tripstar (Teologic Routing Satellite), parte senza conoscere la sua destinazione (“come in ogni mito che si rispetti”), con la sola consapevolezza che ne esiste una. La troverà a Flytown, ma solo per mettersi in movimento.


«La vita è il viaggio: il viaggio che dall’innocenza, attraverso prove che contemplano molte perdite e sconfitte. ti conduce alla destinazione finale. Una volta giunto alla meta tocca a te decidere se arrenderti, cedere all’abbandono, oppure ripartire per un’altra destinazione. Non so se posso definirla una morale, ma il senso, uno dei sensi del viaggio di Kamakiriad è questo: ci vogliono molte prove e molto tempo per capire che non esiste un solo punto d’arrivo».

Le otto canzoni sono altrettante tappe del viaggio. Nella prima, il viaggiatore raccoglie una superstite di un incidente stradale e si dirige verso Five Zoos, “dove il sole è accecante e l’acqua bollente”. Nella seconda, la macchina attraversa Splittsville, il paese che vive tre stagioni normali e nella quarta è illuminato dalla controluna, “una luna particolare, che anziché favorire l’unione e l’amore tra uomo e donna, provoca irrimediabilmente la rottura della relazione in corso”. Nella terza si giunge a Laughing Pines, dove una nuova attrazione, Funway, consente di rivivere gli amori passati, ricreando le memorie della vita. Quarta sosta nella Nervous Time di Snowbound, la città della Depressione, dove ogni cosa è tristezza e le uniche luci sono quelle che per sette secondi
Wolf-Tommy accende sul fiume gelato. Nel quinto atto del viaggio il protagonista si ritrova nella sua città natale, ma solo per scoprire che tutte le donne di ieri sono state sostituite dalle Donne di Domani.

«Ho immaginato questa invasione di donne aliene, provenienti da un altro pianeta, che gradatamente sostituiscono tutte le donne della città, non tanto come metafora della donna di oggi. Pensavo più che altro alla degenerazione di un rapporto sentimentale. Quando due persone smettono di amarsi, ma continuano a stare insieme e si allontanano sempre più, ognuno in una direzione diversa, su una nuova strada a cercare nuove emozioni. E una mattina l’uomo si sveglia (ma potrebbe benissimo essere la donna), guarda la sua compagna e non la riconosce più. Un’altra l’ha sostituita».

Due le tappe rimanenti - “Florida Room” (‘dove lei è ‘unica che può riportarmi alla vita quando la città gela”) e “On The Dunes” (‘dove ho visto la mia felicità scomparire lontano con la marea”) - prima di arrivare a Flytown (“dove finiscono la speranza e l'autostrada”) e passare una notte d’incanto, nella “Teahouse On The Tracks” fra Bleack e Divine (cioè fra la Desolazione e il Divino). La mattina dopo, la Kamakiriad sarà di nuovo in strada. Il viaggio non finisce mai. Prima del falso approdo, il viaggiatore affronta dunque sette prove che prevedono altrettante perdite: della vita di chi ti è accanto (“Trans-lsland Skyway”); dell’amore (“Countermoon”); della giovinezza, attraverso l’evocazione degli amori perduti (“Springtime”); della serenità (“Snowbound”); della quotidianità (“Tomorrows's Girls”); del calore (“Florida’s Room”); della felicità (“On The Dunes”). Fantascienza per parlare di realtà? Un viaggio nel futuro come falso movimento?

«Anche. La fantascienza ti concede libertà che altrove ti sono negate. In primo luogo, l’ambientazione della storia del futuro dà la possibilità di parlare del presente con quel distacco necessario a non precludere l’obiettività. Inoltre ti permette, inventando macchine da sogno e oggetti strani nonché città dove accadono eventi speciali, di bacchettare certi mali o esagerazioni del mondo d’oggi. Il miglior modo di fare satira è mescolarla alla fantascienza. Il mio viaggio è interpretabile ad almeno due livelli: letterale e metaforico. Ognuno può scegliere quello che più gli aggrada. Tornando alla fantascienza, non leggo più quanto un tempo ma ho apprezzato alcune cose della nuova frontiera del cyberpunk. Ad esempio, leggo con passione William Gibson, che mi ricorda gli scrittori che leggevo da piccolo: Bester, Dick, Heinlein, Van Vogt».

Dunque Donald Fagen è tornato.

«Se avessi atteso ancora un po’, nessuno mi avrebbe più riconosciuto. Quando chiamavo la Warner, la segretaria mi diceva: “Fagen? Mi può fare lo spelling, per cortesia?”.


E ha chiamato per produrre il nuovo lavoro il vecchio amico, Walter Becker:

«Mi sentivo solo, in studio, così mi sono detto: se devo proprio confrontarmi con un altro, perché non chiamare qualcuno con cui ho già litigato?».

Come Fagen, anche Becker era rimasto lontano dalla musica in prima persona. Se il vecchio compagno aveva trovato divertimento solo in estemporanee passeggiate nel mondo delle soundtrack (“Re Per Una Notte” di Scorsese, “Gospel At Colonus”, musical di Broadway, e “Arthur 2”, oltre al già citato “Le Mille Luci Di New York”) lui si era dedicato alle produzioni (Rickie Lee Jones, Windham Hill, China Crisis...), buoni lavori, ma senza colpi d’ala. Poi la chiamata di Fagen si è allargata, fino a suonare le parti di basso e la chitarra solista e a ritrovare i vecchi stimoli.
Con il ricongiungimento della coppia, le mille voci di New York hanno ceduto il posto a sedere a una voce sola, confermata dagli stessi protagonisti: tornano anche gli Steely Dan. Ancora non si sa con quale nome (Steely Dan, Becker and Fagen o una nuova sigla), ma è certo un tour, che partirà quest’estate dal Grande Paese per giungere in autunno nella Vecchia Europa, si spera Italia inclusa. Il repertorio? Le canzoni del nuovo album di Walter Becker, i brani dei due lavori da solista di Donald Fagen e molti pezzi degli Steely Dan, rimasticati e riarrangiati, Altra corsa, altro
regalo. È questo, forse, dopo l’antipasto di Kamakiriad , il piatto prelibato, il gran fritto misto: non solo gli Steely Dan si riformano, ma tornano a cantare e suonare dal vivo.

« Non succedeva dal 1974 perché non riuscivamo a trovare i musicisti adatti. Molti dei nostri collaboratori erano bravissimi strumentisti, ma per niente versatili, incapaci di passare disinvoltamente da uno stile all’altro, come ci attendevamo da loro. Le canzoni degli Steely Dan erano molto diverse l’una dall’altra, sebbene ad ognuno avessimo fatto indossare il medesimo vestito per rendere riconoscibili noi e loro. Perciò avremmo avuto bisogno di musicisti diversi per ogni canzone, e questo non era possibile, oltre che economico. Non avevamo soldi a sufficienza per scritturare venti band diverse e alternarle sul palco. Così, io e Walter decidemmo di concentrarci sulla composizione e sul lavoro in sala di registrazione».

La band che aveva rubato il nome a un passaggio de “Il Pasto Nudo” di William Burroughs seguitò da quel 1974 ad aggiungere da studio piccoli gioielli alla già bella collana: una “Rikki Don’t Lose That Number”, che divenne il loro più grande hit, con strizzate d’occhio e toccatine di gomito al pianista hardbop Horace Silver; una “Parker’s Band” che era saluto al sax be-bop di Bird; un rifacimento della “East St. Louis Toodle-oo” di Duke Ellington con le chitarre wah-wah di Becker a simular la tromba di Bubber Miley; un quintetto di album belli (anche se a volte controversi) come Pretzel Logic, Katy Lied, The Royal Scam, Aja, Gaucho. Momenti di gloria dove il grande domatore del jazz-pop-rock ammansiva le belve feroci dei testi, oscuri e criptici. Prodotti impeccabili nella forma che ammaliavano chi domandava nitore e rigore formale e che guadagnavano se non l’amore il rispetto anche di chi alla musica chiedeva coinvolgimento totale, emozioni a tambur battente, alternanza di sentimenti, esposizione aperta al pubblico di gioie, dolori e autobiografia.
In fondo, non è mica detto che chi ama Billie non possa riconoscere il valore di Ella.


«Ci hanno sempre accusati di freddezza eccessiva, di grande distacco dalle canzoni, come se scrivere fosse qualcosa che si faceva per passatempo. Ma noi sapevamo e volevamo fare un solo tipo di musica, che magari qualcuno considerava d’élite. Il miglior complimento che mi abbiano fatto è che la musica degli Steely Dan e di The Nightfly sono senza tempo, non necessariamente legate all’anno in cui sono stati realizzate. E’ confortante sapere di essere riuscito a produrre qualcosa che oggi, a distanza di vent’anni non è considerato datato. Adesso vorrei che qualcuno si accorgesse che gli Steely Dan, sebbene usassero spesso accordi e armonie sofisticate, avevano come scopo primario quello di semplificare. Prima sommare elementi diversi - principalmente i suoni e le suggestioni del jazz con la strumentazione tipica del rock e il fascino dei suoni latini - e poi spogliare il risultato delle sue sovrastrutture. Adesso siamo tornati. The Nightfly era il mio passato, Kamakiriad è il mio viaggio nel futuro. Gli Steely Dan tornano ad essere il mio presente».

(Massimo Cotto, Rockstar, luglio 1993)

martedì 23 maggio 2017

Campofame, di Andrea Pazienza - dal poema di Robinson Jeffers

Andrea Pazienza (23 maggio 1956 San Benedetto del Tronto, 16 giugno 1988 Montepulciano)

Nel maggio del 1987, in pieno gorgo adolescenziale e lettore onnivoro, mi capita tra le mani questa misteriosa opera di Andrea Pazienza. Appare a puntate su una rivista di fumetti che, insieme a Ken Parker, era tributo mensile al mondo dei disegni: Comic Art (in quel numero anche Will Eisner e Magnus).
I disegni, ancora più densi e cupi del solito, si annodano a un poema scarno, dalle liriche semplici eppure così potenti da emozionarmi. Nella paura di perdere quei fogli, incomincio a ricopiare su un quaderno il poema di questo autore allora sconosciuto, Robinson Jeffers. Seguo il filo dell'emozione e uso una penna rossa, come la palette preminente - insieme al blu fondo, vene e arterie - usata da Paz:


“Campofame” è la storia dell’uomo che uccise la morte e delle conseguenze di questo atto impossibile. Nel 1987 il poeta Moreno Miorelli spedisce a Pazienza le fotocopie del poema di Robinson Jeffers e Andrea inizia a lavorare alla storia. L’esito è un viaggio duro che, nella prima parte, affida a rare didascalie il difficile compito della narrazione e a un segno ricco e maturo il compito di raffigurare le visionarie immagini di Jeffers. Quasi muto il surreale corpo a corpo fra Campofame e il Mietitore; cupo il tratto, con colori spessi a iscurire la tavola. Rari tagli di luce illuminano Campofame, mentre il rosso del sangue si sparge sempre più lucido fra i disegni. Quando avviene l’impossibile sulla terra non muore più nessuno, ma nessuno lo ringrazierà per questo. Persino la vecchia madre, per la quale ha lottato con la Morte, si rivolterà dura contro di lui, rivelandogli l’inferno che è la sua vita al netto della pietose bugie.
Campofame esce sulla rivista di Rinaldo Traini “Comic Art” e viene stampata in volume su “Zanardi e altre storie” e poi come titolo a sé dalla Edizioni Di nel 2001. Quest’ultimo volume raccoglie “Campofame”, i disegni realizzati da Paz per il poema “Tre canti” dell’amico Miorelli e la “Testimonianza” di quest’ultimo sul suo rapporto con Andrea Pazienza.

(dalla presentazione del volume dell'editore Edizioni Di, Castiglione del lago, 2001)















John Robinson Jeffers (Allegheny City, 10 gennaio 1887Carmel-by-the-Sea, 20 gennaio 1962) è stato un poeta statunitense.

Molte delle opere di Jeffers sono scritte in forma epica o narrativa, ma lui è anche conosciuto per le sue poesie in versi brevi ed è considerato un'icona del movimento ecologista. Considerato autorevole in alcuni ambienti, nonostante - o proprio a causa - della sua filosofia "In-Umanista", Jeffers crede che il conflitto trascendentale ha bisogno della conoscenza e dell'interessamento degli esseri umani, per essere de-enfatizzato in favore del'immensa totalità. Questo lo ha portato ad opporsi alla partecipazione degli Stati Uniti d'America nella Seconda Guerra Mondiale, salvo poi assumere una posizione controversa dopo la suddetta entrata.
Jeffers ha coniato la locuzione philosophy of inhumanism, con la convinzione che l'umanità è troppo egocentrica, troppo incentrata su sé stessa, e quindi troppo indifferente alla «stupefacente bellezza delle cose». La sua poetica è basata sul risentimento contro l'umanità che ha trasformato la Terra in un teatro di sanguinosa violenza.
Nella sua opera The Double Axe and Other Poems (trad. it. La bipenne e altre poesie, Guanda, 1969) Jeffers esplica la descrizione dell'In-Umanismo come «un traslamento di enfasi e significato dall'Uomo al non-Uomo; il rifiuto dell'umano solipsismo e il riconoscimento della magnificenza trans-umana... Questo modo di pensare e sentire non è né misantropico né pessimista... Offre un ragionevole distacco alle norme di comportamento: invece di amore, odio, invidia, ecc. fornisce magnificenza per l'istinto religioso e soddisfa il nostro bisogno di ammirare la grandezza e rallegrarci per la bellezza».[1]



Luca Tanchis

lunedì 22 maggio 2017

L'arancia di Bruno Munari


L’oggetto è costituito da una serie di contenitori modulati a forma di spicchio, disposti circolarmente attorno a un asse verticale, al quale ogni spicchio appoggia il suo lato rettilineo mentre tutti i lati curvi volti verso l’esterno, danno nell’assieme come forma globale, una specie di sfera.


L’insieme di questi spicchi è raccolto in un imballaggio ben caratterizzato sia come materia sia come colore: abbastanza duro alla superficie esterna e rivestito con un’imbottitura morbida interna di protezione tra l’esterno e l’assieme dei contenitori. Il materiale usato è tutto della stessa natura, in origine, ma si differenzia in modo appropriato secondo la funzione. L’apertura dell’imballaggio avviene in modo molto semplice e quindi non si rende necessario uno stampato allegato con le illustrazioni per l’uso. Lo strato d’imbottitura ha anche la funzione di creare una zona neutra tra la superficie esterna e i contenitori così che, rompendo la superficie, in qualunque punto, senza bisogno di calcolare lo spessore esatto di questa, è possibile aprire l’imballaggio e prendere i contenitori intatti. Ogni contenitore è a sua volta formato da una pellicola plastica, sufficiente per contenere il succo, ma naturalmente abbastanza manovrabile. Un debolissimo adesivo tiene uniti gli spicchi tra loro per cui è facile scomporre l’oggetto nelle sue varie parti tutte uguali. L’imballaggio, come si usa oggi, non è da ritornare al fabbricante ma si può gettare.
Qualcosa va detto sulla forma degli spicchi: ogni spicchio ha esattamente la forma della disposizione dei denti nella bocca umana per cui, una volta estratto dall’imballaggio si può appoggiare tra i denti e con una leggera pressione, romperlo e mangiare il succo. Si potrebbe anche, a questo proposito considerare come i mandarini siano una specie di produzione minore, adatta specialmente ai bambini, avendo lo spicchio più piccolo. Oggi purtroppo con l’uso delle macchine spremitrici tutto viene confuso e gli adulti mangiano il cibo dei bambini e viceversa.


Di solito, gli spicchi, contengono oltre al succo, un piccolo seme della stessa pianta: un piccolo omaggio che la produzione offre al consumatore nel caso che questi volesse avere una produzione personale di questi oggetti. Notare il disinteresse economico di una simile idea e per contro il legame psicologico che ne nasce tra consumatore e produzione: nessuno, o ben pochi, si mettono a seminare aranci, però l’offerta di questa concessione altamente altruista, l’idea di poterlo fare, libera il consumatore dal complesso di castrazione e stabilisce un rapporto di fiducia autonoma reciproca. Gesto cordiale e signorile, non come certi produttori contemporanei che offrono una mucca a chi compra venticinque grammi di formaggio.
L’arancia quindi è un oggetto quasi perfetto dove si riscontra l’assoluta coerenza tra forma, funzione, consumo.
Persino il colore è esatto, in blu sarebbe sbagliato.
Tipico oggetto di una produzione veramente di grande serie e a livello internazionale dove l’assenza di qualunque elemento simbolico espressivo legato alla moda dello styling o dell’estètique industrielle, di qualunque riferimento a figuratività sofisticate, dimostrano una conoscenza di progettazione difficile da riscontrare nel livello medio dei designer. Unica concessione decorativa, se così possiamo dire, si può considerare la ricerca “materica” della superficie dell’imballaggio trattata a “buccia d’arancia”. Forse per ricordare la polpa interna dei contenitori a spicchio, comunque un minimo di decorazione, tanto più giustificata come in questo caso, dobbiamo ammetterla.


(Good Design, Bruno Munari, 1963)
(riedito da Corraini Edizioni, 2014)






Disegnare un albero - Zanichelli (1977)
Fantasia - Editori Laterza (2006)
Da cosa nasce cosa - Editori Laterza (2010)


Aldo Tanchis, L'arte anomala di Bruno Munari, Laterza 1981
Bruno Munari: Design As Art (prossimamente in ristampa sempre presso Corraini Edizioni)

Bruno Munari (Milano, 24 ottobre 1907Milano, 29 settembre 1998) è stato un artista, designer e scrittore italiano.
È stato "uno dei massimi protagonisti dell'arte, del design e della graficadel XX secolo"[1], dando contributi fondamentali in diversi campi dell'espressione visiva (pittura, scultura, cinematografia, disegno industriale, grafica) e non visiva (scrittura, poesia, didattica) con una ricerca poliedrica sul tema del movimento, della luce e dello sviluppo della creatività e della fantasia nell'infanzia attraverso il gioco.
Bruno Munari è figura leonardesca tra le più importanti del novecento italiano. Assieme allo spaziale Lucio Fontana, Bruno Munari il perfettissimo domina la scena milanese degli anni cinquanta-sessanta; sono gli anni del boom economico in cui nasce la figura dell'artista operatore-visivo che diventa consulente aziendale e che contribuisce attivamente alla rinascita industriale italiana del dopoguerra.
Munari partecipa giovanissimo al futurismo, dal quale si distacca con senso di levità ed umorismo, inventando la macchina aerea (1930), primo mobile nella storia dell'arte, e le macchine inutili (1933). Nel 1948 fonda il MAC (Movimento Arte Concreta) assieme a Gillo Dorfles, Gianni Monnet e Atanasio Soldati. Questo movimento funge da coalizzatore delle istanze astrattiste italiane prospettando una sintesi delle arti, in grado di affiancare alla pittura tradizionale nuovi strumenti di comunicazione ed in grado di dimostrare agli industriali e agli artisti-artisti la possibilità di una convergenza tra arte e tecnica. Nel 1947 realizza Concavo-convesso, una delle prime installazioni nella storia dell'arte, quasi coeva, benché precedente, all'ambiente nero che Lucio Fontana presenta nel 1949 alla Galleria Naviglio di Milano.
È il segno evidente che è ormai matura la problematica di un'arte che si fa ambiente e in cui il fruitore è sollecitato, non solo mentalmente, ma in modo ormai multi-sensoriale.
Nel 1950 realizza la pittura proiettata attraverso composizioni astratte racchiuse tra i vetrini delle diapositive e scompone la luce grazie all'uso del filtro Polaroid realizzando nel 1952 la pittura polarizzata, che presenta al MoMA nel 1954 con la mostra Munari's Slides.
È considerato uno dei protagonisti dell'arte programmata e cinetica, ma sfugge per la molteplicità delle sue attività e per la sua grande ed intensa creatività ad ogni definizione, ad ogni catalogazione, con un'arte assai raffinata.

sabato 20 maggio 2017

Il mio Schulz segreto. Bruno Schulz raccontato da David Grossman

Bruno Schulz, autoritratto

Qualche anno fa, quando il mio operare su Facebook era più costante, partecipai a un gioco collettivo dove andavano elencati i dieci libri più amati. Trovando ingiusto doverne escludere parecchi dalla top ten, ripiegai su una soluzione trasversale che assomigliava a includere de iure portieri, difensori e mediani della grande letteratura a concorrere al Pallone d'oro, pur non segnando Nobel o Pulitzer. 
Infatti schierai undici titolari e scrissi: "Elencherò solo gli outsider: i libri venuti dal niente, fuori dai movimenti, dalle tendenze, dalle connessioni, dai filoni del mio gusto all'epoca in cui mi piombarono tra le mani. Insomma libri arrivati dal Nulliverso che mi crearono subbuglio:

1) Jean-Philippe Toussaint - La macchina fotografica (Guanda, 1991)
2) Bruno Schulz - Le botteghe color cannella (Einaudi, 1970)
3) John Gardner - L'orco (Einaudi, 1991)
4) Arnon Grunberg - Lunedì blu (Mondadori, 1996)
5) John Berger - E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto (B. Mondadori, 2008)
6) Alexandre Jardin - Fanfan (Sperling Paperback, 1993)
7) Sherrill Steven - La ragazza annegata (Minimum Fax, 2006)
8) Sergej Dovlatov - Il parco di Puskin (Sellerio Editore Palermo, 2004)
9) Bernard Quiriny - La biblioteca di Gould (L'orma, 2013)
10) Carlo Coccioli - Piccolo Karma (Mondadori, 1987)
11) Jean-Marc Parisis - Prima, durante, dopo (Bompiani, 2008)

Perchè riporto alla luce questa archeologia autoreferenziale, questa nazionale degli scrittori laterali? Per il semplice motivo che successivamente mi sono saltate all'occhio molte iniziative, articoli e uscite editoriali attorno alla figura mai troppo sviscerata di Bruno Schulz.
(A dimostrazione di come, ancora una volta, la mia presunzione di essere venuto a contatto con libri sconosciuti e di nicchia, sconfinava in Beozia).
Innanzitutto il bel libro di Nadia Terranova, Bruno. Il bambino che imparò a volare, e l'ottima lettura che ne trae 
Elisabetta Cremaschi nel suo sito Gavroche, ma soprattutto il meraviglioso racconto che David Grossman consegnò al New Yorker e all'Espresso, intitolato The age of genius, L'epoca geniale, nel giugno del 2009.




Lo stesso titolo poi verrà utilizzato dall'Einaudi per una raccolta di racconti dello scrittore polacco, la quale contiene, come postfazione, la traduzione del saggio di Grossman, qui però intitolato "Tutto il possibile infinito" (saggio che venne aggiunto anche all'edizione Mondadori del 2011 del libro di Grossman, Vedi alla voce: Amore).


Il mio Schulz segreto, The age of genius
La leggenda di Bruno Schulz, di David Grossman

Primavera del 1933. Il pomeriggio della domenica di Pasqua. Dietro il banco della reception di un piccolo hotel di Varsavia c'è Magdalena Gross. Magdalena è una scultrice e il suo piccolo albergo a conduzione familiare è un punto d'incontro di scrittori e intellettuali. Nella hall è seduta una ragazzina ebrea di circa 12 anni, nativa di Lódz. I genitori l'hanno mandata a Varsavia per riprendersi da una grave malattia. Un uomo piccolo, magro e pallido entra nell'hotel con una valigia. È un po' curvo, alla bambina - il suo nome è Jagoda Goldblum - sembra spaventato. Magdalena gli domanda come si chiama. "Schulz", risponde lui, "sono un insegnante, ho scritto un libro e..."Magdalena lo interrompe: "Da dove viene?". "Da Drohobycz". "E come è arrivato qui?". "In treno, passando per il ponte di Danzica". La donna ridacchia. "Danzica? Lei danza?". "Come? No, assolutamente no". 
L'uomo giocherella con l'orlo della giacca. Magdalena ride, divertita delle proprie spiritosaggini, strizza l'occhio alla bimba al di sopra della spalla di Schulz. "E cosa è venuto a fare qui?", gli chiede finalmente. "Sono insegnante di disegno al ginnasio, ho scritto un libro di racconti", sussurra lui, "sono venuto a Varsavia solo per questa notte, vorrei consegnarlo a Madame Nalkowska". Magdalena squadra l'uomo dall'alto in basso. 
Zofia Nalkowska è una famosa scrittrice e drammaturga nonché membro della commissione editoriale della prestigiosa casa editrice Rój. "E come farà arrivare il libro a Madame Nalkowska?", gli domanda con un sorrisetto. L'uomo balbetta, abbassa lo sguardo. Ma il suo tono è caparbio: qualcuno gli ha detto che Madame Gross conosce Madame Nalkowska. Se fosse così gentile da... Non appena pronuncia questa frase, Madame Gross accantona l'atteggiamento irrisorio. Forse perché l'uomo ha un'aria tanto spaventata, come intuisce la bambina Jagoda. Oppure per quella sua ostinazione quasi disperata. Magdalena Gross va al telefono, parla con Zofia Nalkowska e le dice dell'uomo. "Se dovessi leggere il manoscritto di ogni balordo che arriva a Varsavia", risponde Nalkowska, "non avrei il tempo di scrivere". Magdalena Gross le chiede di dargli un'occhiata. "Solo alla prima pagina", bisbiglia nella cornetta, "così ci liberiamo di lui". 
Zofia Nalkowska accetta a malincuore. Magdalena Gross riattacca. "Prenda un taxi. Madame Nalkowska la riceverà tra mezz'ora, per dieci minuti". Schulz esce di corsa. Dopo un'ora è di ritorno. Senza il manoscritto. "Cosa le ha detto Madame Nalkowska?", domanda Magdalena. "Mi ha chiesto di leggerle la prima pagina ad alta voce", risponde Schulz, "poi mi ha interrotto. Mi ha detto di lasciarle il manoscritto e di tornare qui all'albergo. Mi contatterà lei". Magdalena Gross gli offre un tè, ma lui non riesce a berlo. Aspettano in silenzio. L'atmosfera nella hall a un tratto si fa seria, tesa. Schulz cammina nervosamente avanti e indietro. La ragazza Jagoda lo segue con lo sguardo. Anni dopo, divenuta adulta, lascerà la Polonia e andrà a vivere in Argentina. Diverrà pittrice, sposerà uno scultore e racconterà questo episodio sessant'anni dopo, durante una visita a Gerusalemme. 
I tre aspettano. Ogni squillo del telefono li fa sobbalzare. Finalmente, verso sera, Zofia Nalkowska chiama. Le manca la voce. Ha letto soltanto trenta pagine. Ci sono cose che è certa di non avere capito eppure le sembra di trovarsi in presenza di una rivelazione. Forse la più importante rivelazione della letteratura polacca degli ultimi anni. Lei stessa sarebbe onorata di proporre il manoscritto - il più presto possibile - a una casa editrice. La bambina guarda Schulz che sembra sul punto di svenire. Gli portano una sedia. Lui vi si lascia cadere e si prende la testa fra le mani. 
Dei numerosi aneddoti, storie e leggende che ho sentito su Bruno Schulz questo mi commuove in modo particolare. Forse per via delle modeste circostanze in cui una stella tanto brillante è venuta alla ribalta, o forse perché è narrato dall'innocente punto di vista di una bambina, che osservava quell'uomo dall'aspetto fragile quanto quello di un bambino da un angolo della hall dell'albergo. Ed ecco un altro aneddoto: quando Schulz era ragazzo, una sera malinconica, sua madre Henrietta entrò in camera sua e lo trovò che nutriva con granelli di zucchero le ultime mosche rimaste al termine del freddo autunno. "Bruno", gli domandò, "ma che fai?". "Le sto irrobustendo per l'inverno". 

Bruno Schulz, uno scrittore ebreo polacco, nacque nel 1892 nella città di Drohobycz, in Galizia, una regione allora entro i confini dell'impero austro-ungarico e oggi dell'Ucraina. Non ha lasciato molti scritti: solo due raccolte di racconti, qualche decina di saggi, articoli, recensioni, oltre a disegni e schizzi. 
Ma questo poco racchiude un mondo intero. I suoi due libri: 'Le botteghe color cannella' (1932) e 'Il Sanatorio all'insegna della Clessidra' (1937) creano un universo fantastico ripercorrendo la mitologia privata di una famiglia, e il loro lessico è tanto ricercato e vivido da essere esso stesso protagonista e l'unica dimensione in cui quei racconti possano esistere. Schulz scrisse inoltre un romanzo intitolato 'Il Messia', andato perduto durante la guerra. Nessuno ne conosce la trama. Una volta incontrai un uomo al quale Schulz aveva mostrato l'incipit: parlava dell'alba che si levava su una città, della luce che si faceva sempre più forte, delle torri e guglie. L'uomo non vide altro.¹(ndr)
Alla pubblicazione del suo primo libro Schulz fu immediatamente riconosciuto come un raro talento, soprattutto dai circoli letterari polacchi e, negli anni, è divenuto una figura di notevole interesse per scrittori e lettori di tutto il mondo. Autori del calibro di Philip Roth, Danilo Kis, Cynthia Ozick, Nicole Krauss e altri ancora hanno parlato di lui, trasformandolo in un personaggio dei loro libri o rievocando la storia della sua vita. Schulz è uno di quegli autori la cui opera, come pure la personalità e la vita, è spesso soffusa da un alone di meraviglia e di mistero. "Era uno di quelli cui Dio ha passato la mano sul viso nel sonno, così che sanno ciò che non sanno, diventano pieni di congetture e di sospetti, mentre attraverso le loro palpebre chiuse passano i riflessi di mondi lontani". Così scrive Schulz a proposito di Alessandro Magno nel suo racconto 'Primavera'. E lo stesso potremmo dire facilmente di lui. E ho l'impressione che anche noi, suoi lettori, proviamo qualcosa di simile nel momento in cui i suoi racconti scorrono sotto i nostri occhi. 

Perché scrivo queste cose? Soprattutto a seguito di una testimonianza commovente sugli ultimi istanti di vita di Bruno Schulz - di cui non si sa molto - e che ho appreso di recente. Prima di riferirla, però, vorrei parlare del mio Bruno Schulz, del modo in cui ha influenzato i miei scritti. Ho l'impressione che tutti coloro che amano questo autore abbiano una propria storia personale riguardo alle circostanze in cui lo hanno scoperto. Io mi imbattei in lui dopo la pubblicazione del mio primo romanzo, 'Il sorriso dell'agnello'. Un bambino, quando nasce, sembra provenire dall'ignoto. La famiglia sente allora il bisogno di riconoscerlo come proprio, di rendere comprensibile, e forse anche un po' meno pericolosi, la sua novità, il suo mistero. I parenti si chinano sulla culla, osservano il neonato da vicino ed esclamano: "Ma guarda, ha il naso di zio Jacob! E il mento identico a quello di zia Malka!". 
Qualcosa di simile succede alla pubblicazione di un'opera prima. Critici e lettori si affrettano a informare il nuovo scrittore a chi si è ispirato, da chi è stato influenzato, e naturalmente, da chi ha copiato. Per inciso dirò che spesso, dopo aver letto le opere degli autori ai quali i miei critici sostenevano avessi fatto riferimento (quasi sempre per la prima volta), ho scoperto che avevano decisamente ragione. 
Un giorno ricevetti la telefonata di un certo Daniel Schilit, un ebreo polacco immigrato in Israele che aveva letto il mio libro. "Si nota subito quanto lei sia stato influenzato da Bruno Schulz", mi disse. Io, giovane ed educato, non lo contraddissi. 
In realtà prima di quel giorno non avevo mai letto niente di Bruno Schulz. Dopo quella telefonata, però, pensai di procurarmi un suo libro. Quella sera, a casa di amici, mi imbattei nell'edizione ebraica di 'Le botteghe color cannella'. Chiesi in prestito il volume e lo lessi nell'arco di poche ore. Ancora oggi faccio fatica a descrivere l'emozione che mi assalì. Giunto alla fine lessi l'epilogo del traduttore israeliano, Yoram Bronowski, e per la prima volta scoprii il modo in cui Schulz era morto. Nel ghetto di Drohobycz un ufficiale delle SS aveva approfittato del suo talento per decorare le pareti di casa e lo aveva preso sotto la sua protezione. Un avversario di quell'ufficiale aveva poi sparato a Schulz per strada, per provocare il rivale. Si racconta che quando i due nazisti si erano incontrati dopo l'assassinio, uno avesse detto: "Ho ammazzato il tuo ebreo", e l'altro avrebbe risposto: "Benissimo, e ora io ammazzerò il tuo". 
Ricordo di aver chiuso il libro, di essere uscito di casa e di aver vagato in un campo vicino per qualche ora. Camminavo come avvolto nella nebbia. Non ero in grado di rientrare e non volevo incontrare nessuno. Non capivo come si potesse continuare a vivere in un mondo in cui potevano accadere cose come queste, dove esistevano persone come queste, dove si potevano pensare cose come queste. Un mondo in cui c'era una lingua che permetteva di pronunciare frasi tanto mostruose. E ricordo anche che, unitamente al senso di paralisi, sentii risvegliarsi in me il bisogno di riscattare la vita e l'esuberanza che avevo scoperto in Bruno Schulz, nelle sue parole, nei suoi racconti. Riscattarli dalla crudeltà, dalla tirannia e dalla laconicità di quella frase: "Ho ammazzato il tuo ebreo". 
Non sempre uno scrittore è in grado di identificare il momento esatto in cui germoglia in lui l'idea di un libro. L'istante del concepimento. Dopo tutto così tanti pensieri e sentimenti si accumulano in un qualche punto dell'anima, per anni, prima di giungere a maturazione e sfociare nella scrittura. 
Eppure, sebbene per molti anni avessi voluto scrivere della Shoah, furono quelle due frasi - "Ho ammazzato il tuo ebreo" e "Benissimo, e ora io ucciderò il tuo" - a darmi la spinta finale, a rappresentare una sorta di scossa elettrica che innescò la stesura del mio romanzo 'Vedi alla voce: amore'. 

I numerosi ammiratori di Schulz conoscono la storia che ho qui riportato sulle circostanze della sua morte. Il poeta e scrittore polacco Jerzy Ficowski, uno dei maggiori studiosi della vita e delle opere di Schulz, riferisce nel suo libro 'Regions of the Great Heresy' (le regioni della grande eresia) che poco prima di un massacro, noto come 'l'eccidio del giovedì nero', un ufficiale della Gestapo, tale Felix Landau, uccise un dentista ebreo di nome Lowe, protégé di un altro ufficiale nazista, Karl Günther. Fra i due non correva buon sangue e l'omicidio del suo protetto spinse Günther a cercare vendetta. Proclamando le sue intenzioni andò allora a cercare Schulz, beniamino di Landau e, approfittando degli eventi del giovedì nero, gli sparò all'angolo fra via Czacki e via Mickiewicz. "Secondo quanto riferiscono numerosi residenti di Drohobycz", scrive Ficowski, "nell'incontrare poi Landau, Günther proclamò solennemente: 'Tu hai ucciso il mio ebreo, e io ho ucciso il tuo'". 
Ficowski riporta questa storia con cautela e diffidenza. C'è anche chi la reputa una leggenda, una diceria, un aneddoto, ritenendo che Schulz sia stato effettivamente assassinato nel ghetto di Drohobycz, ma che le cose siano andate diversamente e quell'orrendo scambio di battute non sia mai avvenuto. Il dibattito tra i sostenitori delle diverse versioni perdura da decenni, senza che possa trovare apparente soluzione, e forse sarebbe bene ricordare le parole che lo scrittore argentino Ernesto Sabato scrisse in un contesto totalmente diverso: "Gli aneddoti sono sostanzialmente fedeli alla verità, proprio perché sono finzioni, inventati in dettaglio per adeguarsi con grande precisione a una certa persona". 
Ma anche se ritenessimo la conversazione tra gli ufficiali della Gestapo - Landau e Günther - pura invenzione, essa ci tocca nel profondo perché, malgrado tutto, è sostanzialmente fedele a una qualche verità tragica e ironica riguardante l'uomo Bruno Schulz, il suo senso di estraneità esistenziale, di impotenza, il suo modo di essere. Da quando ho capito che sarei diventato scrittore ho anche capito che avrei scritto della Shoah. Penso che queste due consapevolezze siano nate in me contemporaneamente. 
E più il tempo passava, più sentivo crescere in me la sensazione che non sarei stato in grado di comprendere la mia esistenza di uomo, di padre, di scrittore, di israeliano e di ebreo fintanto che non avessi scritto della vita che non avevo vissuto: all'epoca della Shoah, nello spazio della Shoah. In altre parole mi chiedevo come mi sarei comportato se fossi stato un ebreo all'epoca del dominio nazista, in un ghetto, in un campo di concentramento o di sterminio. 
Cosa avrei potuto fare per salvare qualcosa di me, del mio essere, in una realtà in cui le persone venivano spogliate non solo dei loro abiti, ma dei loro nomi e dei loro affetti, venivano quasi totalmente private della loro vita precedente - dei famigliari, degli amici, degli amori, della professione, del talento - sradicate dal contesto in cui vivevano e spinte da altri esseri umani al gradino più basso dell'esistenza, divenendo numeri stampati su un braccio, carne e sangue, creature destinate a essere sterminate con la massima efficienza. Volevo sapere cosa in me si sarebbe opposto a questo tentativo di annichilimento e avrebbe preservato una scintilla di umanità in un mondo interamente finalizzato a spegnerla. 

Quando terminai di leggere il libro di Schulz capii di aver trovato la chiave con la quale avrei potuto scrivere della Shoah. Non scrivere della morte e dello sterminio, ma della vita, di ciò che i nazisti avevano distrutto in maniera meccanica e su vasta scala. E non di una vita trascorsa fiaccamente, ma di una come quella che Schulz ci insegna nei suoi libri: vera, alla massima potenza, nella quale la gente che ho appena incontrato, l'attimo appena trascorso, la scena già vista migliaia di volte, la parola ripetuta e scritta all'infinito, si rinnovano incessantemente. 
Ricordo anche che, con l'arroganza del giovane scrittore, dissi a me stesso che volevo scrivere un libro che tremasse sullo scaffale. Vitale quanto un battito di ciglia nella vita di un uomo. In ogni pagina di Schulz, infatti, in ogni suo brano, la vita esplode ed è degna di questo nome. È ricca di contenuto, di significato e avviene simultaneamente in tutti i substrati del conscio e dell'inconscio, dell'illusione, del sogno, dell'incubo, dei sensi, dei sentimenti, di un linguaggio ricco di sfumature. Ogni riga è una ribellione contro ciò che Schulz definisce "il muro fortificato che grava sul significato". 
È una protesta contro la desolazione, la banalità, la routine, la stupidità, gli stereotipi, la tirannia del semplicismo, della massa, contro tutto ciò che è privo di audacia, di ispirazione, di nobiltà di spirito. E la storia - vera o presunta - dell'assassinio di Bruno Schulz ancora oggi ci sconvolge tanto perché crea un insopportabile conflitto tra il modo di pensare e di agire dei nazisti e ciò che l'uomo Bruno Schulz era riuscito a creare in forza della sua aspirazione, della sua elevazione spirituale. 
Nel racconto 'I manichini', Schulz scrive di suo padre: "Vale la pena notare come tutte le cose, a contatto con quell'uomo straordinario, risalissero in certo qual modo alla radice della loro esistenza, ricostruissero la loro realtà fenomenica fino al nucleo metafisico, tornassero per così dire all'idea primigenia per distaccarsene poi a quel punto e volgere in quelle regioni dubbie, rischiose e ambigue che chiameremo qui, brevemente, regioni della grande eresia". 
Non c'è descrizione più azzeccata dello stile dello stesso Schulz, della sua ricerca costante del "nucleo metafisico" delle cose, ma anche del suo coraggio di cambiare, di punto in bianco, il proprio punto di vista e volgere, all'ultimo minuto, in maniera ironica e significativa, nelle "Regioni della Grande Eresia". È questa la forza di uno scrittore che non si fa illusioni circa la natura arbitraria, caotica e casuale della vita, eppure è determinato a costringere quell'esistenza banale e indifferente a capitolare, a spalancarsi, a rivelare ai nostri occhi il nucleo del significato celato nelle sue profondità. Oserei dire: il nucleo di un'umanità nascosta. E malgrado egli creda fermamente in un qualche 'significato', 'senso' o 'legge' che crea e guida tutto ciò che è al mondo - uomini, animali, piante, o anche oggetti inanimati ai quali attribuiva, sempre con un sorriso, un'anima e dei desideri - è altresì capace, nella frazione di un secondo, di sradicarsi da questa convinzione, di disconoscerla con una sorta di disperazione abissale, demoniaca, che accentua in noi la sensazione della sua profonda solitudine e l'intuizione che quest'uomo non poteva trovare consolazione in questo mondo. 

All'inizio dell'estate del 2008, in una casa di riposo di Beer Sheva, incontro Zeev Fleischer, un uomo di 83 anni che per due anni, dal 1939 al 1941, era stato alunno di Bruno Schulz al ginnasio Sternbach, una scuola superiore ebraica situata in via Szaszkiewicz, poco lontano dal centro della città di Drohobycz, dove la lingua di insegnamento era il polacco. 
"Ufficialmente Schulz era insegnante di disegno e applicazioni tecniche", mi racconta Fleischer, "era una persona timida e molto chiusa. Agli occhi degli estranei non valeva granché. Perché? Perché un uomo deve guadagnare denaro! E chi scriveva 'scemenze' come Schulz, non era tenuto in gran conto. Veniva considerato 'segatura umana'. 
Era un insegnante strano. Aveva ottenuto l'impiego al ginnasio grazie a degli amici che si occupavano di letteratura e riconoscevano il suo genio letterario. Il suo primo libro 'Le botteghe color cannella', era già stato pubblicato nel 1934. Sapevano che Schulz non aveva chance di sopravvivere in un ambiente in cui contava solo il denaro, e avevano deciso di aiutarlo. Avrebbe dovuto insegnare disegno e applicazioni tecniche ma ben presto aveva capito che, in qualità di insegnante di disegno, non avrebbe ottenuto il rispetto dei ragazzi. E poi era una di quelle persone che sembrano chiedere scusa di esistere. Perciò può immaginarsi cosa succedeva durante le sue lezioni. La classe di Schulz era composta per lo più da ragazzi con problemi di disciplina. Lui sapeva che sarebbe diventato il bersaglio dei loro scherzi e penso che abbia capito che poteva salvarsi solo escogitando qualcosa. Così ha avuto un'idea geniale: si è messo a raccontare storie. 
Racconti estemporanei, inventati lì per lì. Era come se disegnasse con le parole. Lui parlava e noi lo ascoltavamo. Persino i più scatenati". Zeev Fleischer scoppia a ridere: "Non faceva altro. Penso che in tutto l'anno non abbia tracciato nemmeno una riga sulla lavagna. Raccontava storie. Entrava in classe, si sedeva, d'improvviso si alzava e si metteva a camminare su e giù, gesticolando. Raccontava con quella sua voce. E anche i ragazzi più turbolenti restavano incantati". 
Mentre Fleischer parla mi rammento di ciò che Schulz scrive nel racconto 'Le botteghe color cannella' a proposito del suo insegnante, il professor Arendt, che teneva lezioni notturne nel ginnasio dove Schulz aveva studiato da ragazzo e dove più tardi sarebbe divenuto insegnante: "A onor del vero non disegnavamo molto in quelle ore, e il professore non esigeva troppo da noi. Alcuni si portavano un cuscino da casa e si sdraiavano sui banchi per un breve sonnellino. E solo i più diligenti disegnavano proprio sotto la candela, nel cerchio dorato della sua luce. (.) Le candele si spegnevano lentamente sulle bottiglie. Il professore si tuffava in una vetrina fonda, piena di vecchi in-folio, di illustrazioni, incisioni e stampe fuori moda". 
Domando a Zeev Fleischer che voce aveva Bruno Schulz. "Era dominante, anche quando parlava in tono sommesso. Non c'erano imperativi nella sua voce. E avevamo sempre la sensazione che fra sé e sé sentisse. come dire? Una specie di musica. Parlava con timbro monotono ma espressivo. Non si curava di virgole o punti di domanda. Però ti rimaneva impresso. La sua pacatezza rimaneva impressa. La musica che racchiudeva. E anche noi alunni ci adeguavamo a quel tono. Probabilmente Schulz non sapeva parlare a voce alta. E aveva paura di noi", aggiunge Fleischer, "questo sì, era sempre sulla difensiva, e aveva uno sguardo spaventato. Perché c'erano ragazzi. la maggior parte lo riteneva un imbranato. Però quando raccontava, stavano zitti. Non capivano molto delle sue storie, ma le sentivano. E quello era un modo per lui di difendersi, così mi pare. Quando raccontava i ragazzi non lo prendevano troppo in giro. Non so se abbia mai scritto quei racconti. Non sarei in grado di ripeterli, non ricordo nemmeno specifiche parole. Ricordo però che erano qualcosa non di questo mondo. Mistici. Dopo la guerra ho telefonato a un mio compagno di ginnasio. Lui non si ricordava nemmeno di Schulz. Su di me, invece, le sue storie avevano avuto un effetto profondo. Forse per via di un certo complesso di inferiorità di cui soffro ancora oggi e di cui anche Schulz soffriva. E questo ci ha uniti. Poi ho cominciato a leggere i racconti che aveva pubblicato. A quell'età non li ho apprezzati. Erano troppo complicati per me, non capivo niente. Descrivevano una specie di realismo misterioso, romantico, mistico. Di solito io non leggo un libro una sola volta. I libri che si possono leggere una sola volta non mi interessano. Non fanno per me. Ho letto e riletto i libri di Schulz e se dicessi di averli capiti, non direi la verità". 
Zeev Fleischer è basso, segaligno, pelato. Porta un paio di occhiali enormi. Ha una voce profonda e calda. È arguto, lucido e ironico. Fa commenti pungenti e ha un senso dell'umorismo venato d'amarezza. Gli piace comporre poesie satiriche e aforismi che ha raccolto in un libro intitolato 'Sulle mie barche a vela'. Ma più che altro non perde occasione di ridere di sé, di sminuirsi, di degradarsi. La sua compagna, Paulina Zomerstein, una donna rotondetta, vivace e arguta, dice: "È fatto così. Soffre di un forte complesso di inferiorità!". 
"Bruno Schulz abitava di fronte alla casa di mia zia, in via Bednarska", prosegue Fleischer, "lo vedevo anche a scuola e i miei genitori conoscevano la sua famiglia. Nessuno però faceva caso a lui. Si sapeva che gli Schulz avevano un figlio e una figlia molto bravi, di successo. E poi c'era lui, Bruno. Aveva l'età di mio padre. Era più grande di me di 33 anni. Quand'era mio insegnante lo rincorrevo alla fine della lezione: 'Signor professore!', lo chiamavo. Così allora ci rivolgevamo agli insegnanti. Gli chiedevo spiegazioni sul racconto che avevamo appena sentito e lui mi parlava come se fossimo allo stesso livello, nonostante già allora si dicesse che era un grande della letteratura polacca. Era chiuso, palesemente insicuro. 
Entrava in classe, 'scusate se sono venuto', 'scusate se respiro'. Era fatto così. Camminava curvo. Tipico di lui". Aveva senso dell'umorismo?, chiedo. "Sì, ma molto particolare. Rideva di sé. Forse è una caratteristica tipicamente ebraica. Quando cominciava una storia sulle prime aveva un momento di indecisione. Ma non appena il racconto si dipanava e lui vedeva che la classe si calmava e i ragazzi stavano in silenzio, gli spuntava un sorrisetto un po' ironico. Ecco, ascoltano, stanno seduti, nessuno si muove. E quel sorriso. Schulz celebrava la sua momentanea vittoria, ma era anche come se ridesse di sé". 

Nel mio romanzo 'Vedi alla voce: amore' Bruno Schulz è un personaggio fantastico e reale a un tempo. Durante la guerra lo faccio fuggire da Drohobycz sotto il naso degli studiosi di letteratura e degli storici. Arrivato a una banchina del porto di Danzica si getta in mare per unirsi a un branco di salmoni. 
Perché salmoni? Forse perché la vita di questi pesci ha sempre incarnato per me l'istinto del vagabondaggio. I salmoni, si sa, nascono nei fiumi, in acqua dolce, e dopo qualche tempo si dirigono al mare, verso l'acqua salata. Una volta giunti lì, in milioni di esemplari, si imbarcano in un viaggio di migliaia di chilometri fino a che, d'improvviso, avvertono una sorta di stimolo interno. Allora invertono la rotta e intraprendono il viaggio verso casa, verso il luogo dove sono nati. Ripercorrono migliaia di chilometri, affrontando difficoltà e pericoli. A migliaia vengono divorati da pesci, aquile, orsi. Cadono preda delle reti dei pescatori. In numero sempre più ridotto risalgono i fiumi controcorrente, superando cascate di cinque o dieci metri, fino a che i pochi sopravvissuti giungono al punto esatto in cui sono nati e lì depongono le uova. Alla loro schiusa le larve nuotano sui cadaveri dei genitori e solo i pochi sopravvissuti a quel viaggio rifaranno il percorso. 
La prima volta che appresi del ciclo di vita dei salmoni sentii che in esso c'era qualcosa di molto ebraico: lo stimolo che si risveglia d'improvviso nella coscienza dei membri del branco e li induce a tornare al luogo in cui sono nati e dove si sono costituiti come gruppo, la forte pulsione a superare ogni ostacolo per arrivarvi. (E forse c'è qualcosa di ebraico anche nell'istinto di abbandonare la madrepatria e di vagare per il mondo, nel febbrile e costante impulso a spostarsi). 
Ma qualcos'altro mi aveva spinto a scegliere i salmoni. Qualcosa di profondamente legato all'opera di Bruno Schulz. Leggendo le sue pagine, infatti, mi ero reso conto come di solito, nella routine quotidiana, ci si sofferma a riflettere sulla vita soltanto quando la si sente fuggire via: quando invecchiamo, quando a poco a poco perdiamo la forma fisica, la salute e, naturalmente, quando ci viene a mancare un parente o un amico. Allora facciamo una pausa, sprofondiamo in noi stessi, e realizziamo che qualcosa in noi è scomparso per sempre. Che non saremo più come prima. 
Leggendo gli scritti di Bruno Schulz si ha però d'un tratto la sensazione che in ogni sua pagina le cose risalgano alla radice, al loro palpito di vita più autentico e forte. D'un tratto vogliamo di più. Ci rendiamo conto che è possibile volere di più. Che la vita va oltre ciò che si estingue e scivola via. Quando scrissi il capitolo 'Bruno' di 'Vedi alla voce: amore' e narrai la scena immaginaria in cui Bruno scappa dalla civiltà che lo aveva deluso e dal linguaggio umano che lo aveva tradito per unirsi a un branco di salmoni, sentii di essere molto vicino, grazie a quel personaggio fantastico, alla radice stessa della vita, al suo istinto primario, essenziale, apparentemente schematizzato dal lungo viaggio dei salmoni attraverso l'oceano. Un istinto di cui Bruno Schulz parla nei suoi libri e al quale anela in ognuno dei suoi racconti; una dimensione agognata che lui definisce "l'epoca geniale", in cui sussisteva l'ardente speranza di un significato, di una spiegazione, della convinzione che la vita potesse essere ricreata grazie alla forza dell'immaginazione, della passione, dell'amore. Un'epoca in cui la disperazione non aveva ancora sopraffatto tutte queste forze e il cinismo e il nichilismo non ci avevano ancora fagocitato. Un'epoca che era una sorta di fanciullezza perfetta, limpida, soffusa di luce dorata che, per quanto breve, un uomo ricorderà sempre con nostalgia e rimpianto. 
"Che è mai quest'epoca geniale e quando fu?" si domanda Bruno Schulz. E noi, suoi lettori, ci domandiamo con lui: c'è mai stata un'epoca di suprema ispirazione in cui l'uomo potesse tornare a essere bambino? In cui l'intero genere umano potesse tornare a essere bambino? Un'epoca in cui le mura fortificate della desolazione e della noia venissero abbattute e un flusso impetuoso, indomito e primigenio di vita, di esuberanza, di creatività, sgorgasse come una formidabile eruzione vulcanica? Un'epoca in cui le forme non fossero ancora rapprese intorno alla sostanza, in cui tutto fosse ancora possibile, malleabile, aperto e fanciullesco? 
"Quest'epoca geniale, dunque, ci fu o non ci fu?", si domanda Schulz. Chissà. E se ci fosse stata, sapremmo riconoscerla? Identificarla? Accettarne l'implicito invito? Oseremmo rinunciare ai sofisticati meccanismi di difesa da noi creati per proteggerci da tutto ciò che una simile epoca comporta? Dalla sua "primordialità" sfrenata, dalla sua irruente profusione? Meccanismi che, un poco per volta, sono divenuti una prigione per noi? Pochi anni dopo che Schulz scrisse queste righe iniziò un'epoca di natura completamente opposta: di brutalità assassina, di sterminio anonimo, "industriale". E proprio al suo agghiacciante invito risposero in molti, in moltissimi, con un entusiasmo sconfortante. 
In 'Vedi alla voce: amore' ho cercato di far rivivere, per qualche pagina, l'epoca geniale che Bruno Schulz propone nei suoi scritti. Ho parlato di un tempo in cui ognuno di noi è un artista, un creatore; in cui la vita di ogni persona è un'opera d'arte unica, peculiare. In cui noi adulti proviamo un dolore insopportabile per esserci pietrificati già bambini e avvertiamo l'istinto impellente di sciogliere la crosta formatasi intorno a noi. Un'epoca in cui ognuno percepisce e comprende che chi uccide anche un solo uomo distrugge un'opera d'arte unica, che mai potrà essere replicata. Un'epoca in cui non ci sarà possibile concepire frasi come: "Ho ucciso il tuo ebreo", "Benissimo e ora io ucciderò il tuo". 
Stalin ha detto una volta: "La morte di un uomo è una tragedia, quella di milioni è statistica". Quando leggo i racconti di Bruno Schulz riesco a sentire come in essi - in me - palpiti un istinto contrario a questa ignobile frase: l'istinto di riscattare la vita del singolo - unica e tragica - dalla "statistica", e anche, naturalmente (c'è forse bisogno di dirlo?) l'istinto di riscattare la vita e la morte dello stesso Schulz. 

L'unica testimonianza oculare dell'assassinio di Bruno Schulz nel ghetto di Drohobycz il 19 novembre 1942 è quella di un suo concittadino, Izydor Friedman, che si salvò dal massacro, scrive il poeta, scrittore e traduttore Jerzy Ficowski nel suo libro 'Letters and Drawings of Bruno Schulz' (lettere e disegni di Bruno Schulz), pubblicato in inglese nel 1988. 
Ficowski cita Friedman che sopravvisse agli orrori dell'occupazione nazista grazie a documenti falsi che lo identificavano col nome di Tadeusz Lubowiecki. E così racconta gli ultimi giorni di Schulz: "Eravamo buoni amici prima della guerra e siamo rimasti in stretto contatto fino al giorno della sua morte nel ghetto di Drohobycz. Lo Judenrat (il consiglio ebraico) del ghetto, sotto la supervisione della Gestapo, ci aveva assegnati a un lavoro in biblioteca. Questa consisteva in un magazzino dove venivano raccolti i libri di tutte le biblioteche pubbliche e delle principali private. La collezione più importante era quella dei gesuiti di Chyròw. C'erano 100 mila volumi che io e Schulz dovevamo catalogare oppure destinare al macero. Questo compito, che andò avanti per qualche mese, era piacevole e interessante per entrambi. Era una specie di paradiso paragonato alle mansioni che venivano imposte ad altri ebrei". L'intenzione delle parole di Friedman è ovviamente chiara, ma mi è difficile credere che Bruno Schulz fosse completamente indifferente al significato del compito che gli era stato imposto, all'ironia amara e crudele insita nel fatto che lui - lui! - dovesse decidere quali libri salvare e quali mandare al macero. "Parlavamo per ore", continua Friedman, "Schulz mi raccontò di aver affidato tutte le sue carte, i suoi appunti e la sua corrispondenza a un cattolico fuori del ghetto. Sfortunatamente non mi disse il nome dell'uomo, o forse l'ho dimenticato. Discutemmo anche della possibilità che Schulz fuggisse a Varsavia. Degli amici (.) gli avevano inviato una carta d'identità (falsa). Io gli diedi valuta e dollari. Ma lui continuava a rimandare la partenza. Non riusciva a trovare il coraggio di mettere in atto quel piano e aspettava che anch'io ricevessi i miei documenti ariani. Nel 1942, non ricordo la data precisa ma so che quel giorno è ricordato come il Giovedì nero, la Gestapo attuò un massacro nel ghetto di Drohobycz. Schulz e io ci trovavamo per caso nel ghetto, per comprare del cibo, anziché essere fuori, al lavoro. Sentimmo degli spari, vedemmo gente che scappava, e anche noi ce la demmo a gambe. Schulz era fisicamente più debole di me e fu fermato da un ufficiale della Gestapo di nome Günther che gli puntò la pistola alla testa e fece fuoco due volte. Quella notte andai a cercare il suo corpo. Frugai nelle sue tasche e consegnai i documenti e gli appunti che avevo ritrovato a suo nipote, Hoffman, che morì un mese dopo. Sul far del mattino lo seppellii nel cimitero ebraico. Dopo la liberazione di Drohobycz, nel 1944, non riuscii più a ritrovare la tomba". 
A detta di Ficowski è questa l'unica testimonianza oculare dell'assassinio di Schulz. Così pensavo anch'io fino a che, durante il colloquio con Zeev Fleischer, a Beer Sheva, lui mi raccontò quanto segue: "Nel 1942 ci fu un intero mese di rastrellamenti. Di solito quelle retate andavano avanti un giorno o due. I tedeschi catturavano la loro quota di ebrei e la cosa finiva lì. Ma quella volta erano andate avanti quattro settimane. Di notte era tutto tranquillo, di giorno i tedeschi ci davano la caccia. A quel tempo io ero ai lavori forzati nelle raffinerie di petrolio. Alle cinque del mattino ci dovevamo presentare davanti a casa e da lì andavamo al lavoro fino alle sette di sera. Io avevo un accordo con mia madre: in caso di pericolo, lei si sarebbe nascosta nel negozio di mio zio, una farmacia in una zona centrale del ghetto. Prima dell'occupazione nazista quello era un quartiere ebraico. C'era una piccola accademia talmudica e una scuola religiosa per bambini. In seguito i tedeschi vi avevano sistemato le sedi delle loro varie istituzioni, come lo Judenrat per esempio. Mio zio aveva un piccolo nascondiglio dietro una parete doppia ed eravamo d'accordo che, in caso di pericolo, mia madre si sarebbe rifugiata lì. Non l'avevo più vista dal giorno in cui erano cominciati i rastrellamenti. Avevo perso i contatti con lei ed ero andato a cercarla. Le volevo molto bene e avevo deciso, contrariamente a ogni logica, di recarmi nel luogo in cui pensavo di trovarla. E dovevo andarci di giorno, perché al buio io perdo completamente l'orientamento. Anche oggi. Quindi un pomeriggio mi sono detto, o la va o la spacca, vado a cercare mia madre. Per strada ho visto gruppi di tedeschi che non appena adocchiavano uno o più ebrei, aprivano il fuoco. Non era una di quelle retate in cui acciuffavano gli ebrei per spedirli via. Erano omicidi veri e propri. Cercavano ebrei e sparavano. Guardi, oggi ci chiamano eroi. Ma quali eroi, eravamo topi. La maggior parte di noi stava nascosta nel suo buco. Drohobycz è una città piccola e i nazisti ci davano la caccia casa per casa. Strada facendo ho visto gruppi di tedeschi coi quali c'era sempre anche un ebreo dell'Ordnungsdienst - una specie di forza ausiliaria incaricata di mantenere l'ordine - armato di randello, non di arma da fuoco. A un tratto ho sentito degli spari. Mi sono appiattito contro un muro e ho aspettato che cessassero. A quel punto ho visto due o tre ebrei passare vicino a una casa di via Czacki . Con loro c'erano dei tedeschi e degli ucraini armati che hanno sparato e gli ebrei sono caduti a terra. Ho aspettato che i tedeschi si allontanassero e poi ho oltrepassato i morti. C'erano cadaveri dappertutto. Venti metri più in là ce n'era un altro. I morti per strada erano cosa di tutti i giorni. La carcassa di un gatto ti avrebbe fatto più impressione. Io, come le ho detto, avevo visto cadere due o tre persone. Non sapevo chi fossero e non avevo notato niente di speciale. Avevo quasi oltrepassato i morti quando ho notato il pane, e mi sono avvicinato". Pane? Quale pane?, domando io, teso. " Ho visto spuntare qualcosa che assomigliava a un pezzo di pane dalla tasca del soprabito di uno dei corpi sul marciapiede. Non era un cappotto, ma un soprabito, di quelli che si indossano in autunno, nelle mezze stagioni. Mi sono avvicinato, probabilmente con l'intenzione di prendere il pane, e il morto si è girato. Cioè, l'ho girato io, toccandolo. Lo guardo e vedo che è Schulz, è la faccia di Schulz". 
Fleischer si interrompe, incrocia le mani sulla testa, fa un respiro profondo. E allora cos'ha fatto?, domando. "Non le so dire. era una cosa atroce, tanto che non sono sicuro. Cos'ho fatto? L'istinto era di prendere il pane e scappare via. Probabilmente però non l'ho fatto. Vede, chi non mangia. e noi non mangiavamo, ci nutrivamo di cose impossibili: minestre fatte di acqua e qualche erba. ed ecco, nella tasca del soprabito vedo. sembrava un grosso pezzo di pane. Mi sono avvicinato al morto, probabilmente con l'intenzione di prendergli il pane. Volevo sfilarlo e andarmene. Ho pensato persino che se fossi arrivato da mia madre col pane chissà come sarebbe stata contenta. Ma io sa, non potevo. Non so cosa ne ho fatto di quel pane. Penso di averlo lasciato lì. Sì, l'ho lasciato lì perché ho visto la faccia del morto. Aveva sangue qui e qui". 
Fleischer si indica la fronte, gli occhi, si copre l'intero viso col palmo della mano, "sono corso via e quella sera ho ritrovato mia madre". Ha riconosciuto Schulz non appena l'ha visto? "Certo. Innanzi tutto aveva una faccia molto particolare. Un naso. sa, un po' da topo. Ma aveva la fronte alta, quello l'ho notato perché i miei genitori dicevano sempre che una fronte alta è segno di grande intelligenza". 
E ricorda la sua espressione? "Nessuna espressione. Aveva il viso insanguinato. Probabilmente per via della caduta sul marciapiede. Le ho detto che non l'avevo notato quando era caduto. Avevo visto accasciarsi delle persone. Lui era fra loro, ma in quel momento non l'avevo riconosciuto". 
Ricorda cosa ha provato nello scoprire che il morto era Bruno Schulz?, domando. "Cos'ho provato? Un brivido, una sensazione di paura. Lei ormai capisce che era più di un maestro per me. Era una pietra miliare nella mia vita. Più di un parente, avevo un legame speciale con lui, lo sentivo vicino in molti sensi. Avevamo anche molti tratti in comune. le paure, la timidezza, l'insicurezza. Quando tutti lo prendevano in giro a me dispiaceva, mi identificavo con lui. E l'ho sempre ammirato per il modo in cui raccontava e noi riuscivamo a vedere la scena. Sentivamo l'odore delle cose che descriveva. Ricordo per esempio come aveva descritto il profumo della cannella che dominava la zona commerciale di Drohobycz. Io non l'ho mai sopportato, solo nelle sue storie mi piaceva. E ricordo la prima pagina di un suo libro, quando la serva Adele arriva dal mercato con una sporta piena di frutta. Se ne sente la fragranza! E a un tratto, eccolo lì, morto. Io avevo all'incirca diciassette anni, avevo già visto parecchi morti, ma era lui". 
Fleischer tace, si chiude in se stesso. "Guardi", continua poi, "è stata una cosa così improvvisa, questione di pochi istanti. Io volevo soprattutto ritrovare mia madre perché non ero sicuro che fosse arrivata dove avrebbe dovuto. Solo a causa di quel pane mi ero fermato e mi ero avvicinato al cadavere. Poi sono corso via e prima di sera ho ritrovato mia madre".
Le ha raccontato di Bruno Schulz?, chiedo. "No, non gliel'ho detto. Comunque non le avrebbe fatto impressione. La vita era quella: tirare sera. Le dico, non ho parlato di queste cose per molto tempo. Schulz ha cominciato a occupare i miei pensieri parecchi anni dopo la guerra. Anche subito dopo la guerra non ci pensavo molto". 
Domando a Zeev Fleischer se conosce la storia dell'assassinio di Schulz. "Certo che la conosco. C'era molta ostilità fra Landau e Günther. E Landau era il protettore di Schulz. Ma è una versione che faccio fatica ad accettare. Quando sento dire che fosse Günther a uccidere Schulz ho difficoltà a crederci. E lo sa perché? Perché Günther era un ufficiale di alto grado della Gestapo. Quindi non riesco a immaginarmelo mentre corre per strada per ammazzare Schulz. Avrebbe potuto eliminarlo in un altro modo. No, proprio non so. Ancora oggi non ho una risposta. Ci sono milioni di storie". 
Nei giorni seguenti il mio incontro con Zeev Fleischer mi sono trovato a ripensare alla scena del ragazzo chino sul cadavere del suo amato insegnante, al pezzo di pane che spuntava dalla tasca del soprabito. Qualcosa nel modo in cui Fleischer aveva parlato di quell'evento non mi dava pace. Gli ho telefonato e gli ho chiesto se se la sentiva, malgrado la difficoltà, di ripetermi il racconto. 
Con mia sorpresa si è mostrato molto disponibile: "Lui, il morto, era disteso su un fianco, non si riusciva a vederne il viso. Non era sulla schiena né sulla pancia. Era piegato così.". Fleischer mi dà una dimostrazione pratica della sua posizione e io ho pensato a Bruno Schulz riverso, curvo, com'era in vita. "E ho notato che aveva delle scarpe, tenisòwki, scarpe da tennis.". Poi, Fleischer mi descrive il pane. "Era una grossa pagnotta. Una specie di mattone. più fango che pane. Per metà segatura. Una specie di pezzo di fango cotto. Se la toccavi, il dito sprofondava come nella plastilina". E cosa è successo dopo?, domando io."Cos'è successo. L'ho presa. Le ho dato un morso? No, no. in ogni caso non posso dire con certezza cosa ho fatto di quel pane". 
Gli dico che il suo racconto non mi dà pace. Che il dilemma che aveva dovuto affrontare era più terribile ai miei occhi di ogni possibile risposta alla domanda se aveva preso o no quel pane; gli dico anche che sono sicuro che Schulz sarebbe stato felice di sapere che un suo alunno aveva preso il pane. Fleischer annuisce, ma fatica a concordare con me. "Non saprei. forse. Sì, certo, Bruno Schulz sarebbe stato felice". E chi no?, domando io. "Chi no? ", replica lui. "Oggi la gente vede le cose diversamente". 
Poi aggiunge: "Penso di averne mangiato, ma molto poco. Due o tre bocconi, non di più. Poi la pagnotta mi si è spezzata in mano. Volevo scappare. non ricordo". 
Gli chiedo se aveva portato un po' di quel pane a sua madre. Lui sostiene di non ricordare."Forse sì, forse no. anche se glielo avessi portato non le avrei detto da dove proveniva. A quel tempo non parlavamo molto". 
Dico a Fleischer che volevo credere con tutto il cuore che avesse mangiato un po' del pane di Bruno Schulz e che ci fosse stato tra loro un momento di comunione come quello. Lui si stringe nelle spalle. "Non lo so. Non ne sono sicuro. È stata una cosa così, impossibile da ricordare". Poi sospira: "È stato terribile, tutto, dall'inizio alla fine. In quei giorni pensavo soprattutto a mio padre, a mia madre e a me. Solo più tardi mi è tornata in mente questa cosa. Dopo la guerra. Per un anno o due sognavo i miei amici che camminavano in fila e non volevano parlarmi. Mi giravano le spalle perché io ero rimasto in vita e non li avevo aiutati. Sentivo che era quello il mio peccato. Lo sento ancora oggi. L'ho anche scritto in una poesia, qualche anno fa, in cui chiedo scusa di essere vivo". 

Così scrive Zeev Fleischer nella sua poesia 'Bronitza': ". spicco un balzo dietro a una curva | Non odo nessuno sparo | Sono salvo, vivo! | Perché!? Non c'è risposta | Caso, destino, fortuna | Domandare non serve | Ho vissuto la Shoah | Mi definiscono superstite | Ancora oggi non so | se sia un encomio, o un'ingiuria | Gli amici morti in sogno | deplorano il mio essere vivo". 
Zeev Fleischer ha incontrato Jerzy Ficowski, il biografo di Schulz, in Polonia nel 2003, in occasione di una intervista televisiva congiunta. 
Gli ha riferito la sua versione dei fatti, per quanto, a suo dire, non in dettaglio come riportata qui. Ha detto a Ficowski che non voleva che la sua testimonianza venisse pubblicata per non intaccare il mito della morte di Schulz. Ficowski gli ha risposto che dovevano rifletterci entrambi, e riparlarne. Non si sono più incontrati. Tre anni dopo Ficowski è morto. "Da allora ho cambiato opinione riguardo al mito", mi dice oggi Fleischer, "ho visto miti andare in frantumi, ideali crollare in mille pezzi. Si deve raccontare". La descrizione dell'assassinio di Schulz fatta dal suo amico Izydor Friedman è naturalmente diversa da quella di Fleischer e non posso stabilire con certezza quale delle due sia più accurata. È possibile che la verità non venga mai appurata, ed è pure possibile che dal punto in cui Fleischer si trovava al momento dello sparo non potesse vedere con precisione ciò che accadeva. Lui stesso conferma di non avere prestato attenzione al momento dell'omicidio. Non c'è però motivo di dubitare di quanto sostiene di aver provato nel trovarsi davanti al cadavere del suo insegnante e, in questo senso, le due versioni sono complementari. 
Dalla testimonianza di Fleischer desumiamo che Bruno Schulz ebbe un ultimo contatto umano dopo la sua morte, prima che il suo corpo venisse ritrovato e sepolto da Friedman. E quel contatto, per un istante, gli restituì la sua identità, il suo nome, il suo viso, la sua peculiarità. Lo riscattò dall'anonimato dell'omicidio, dall'ignobile "statistica". Evocò il bene, la dovizia e il nutrimento che il suo giovane discepolo vedeva in lui e gli concesse un ultimo atto di grazia nei confronti di un suo allievo persino dopo la morte. 
E ora, mentre scrivo, mi ritornano in mente le parole di Bruno Schulz: "Vale la pena notare come tutte le cose, a contatto con quell'uomo straordinario, risalissero in certo qual modo alla radice della loro esistenza, ricostruissero la loro realtà fenomenica fino al nucleo metafisico.". Da qualche tempo ho preso l'abitudine di rileggere, più o meno una volta all'anno, i racconti di Schulz. È una sorta di 'revisione periodica' per me, un modo di rinforzare gli anticorpi contro la tentazione di cadere nell'apatia e nella grettezza. Ogni volta che apro un suo libro mi sorprende come questo autore, quest'uomo, che raramente aveva lasciato la sua città natale, abbia creato un intero mondo per noi, una realtà unica nel suo genere, e come ancora oggi, molti anni dopo la sua morte, continui a nutrirci con granelli di zucchero - e briciole di pane - irrobustirci in previsione di un gelido e infinito inverno.


David Grossman

¹ (ndr) Giorgio Van Straten, in Storie di libri perduti, dedica un capitolo a questo libro:
"Del resto Bruno Schulz, la sua vita, il suo libro scomparso hanno ispirato molti scrittori. Oltre a Grossman, Cynthia Ozick che ha scritto un romanzo proprio sul Messia e sulla sua misteriosa ricomparsa a Stoccolma —   e vedremo più avanti come la narrativa a volte anticipi la realtà  — e anche uno scrittore italiano, Ugo Riccarelli, nel suo Un uomo che forse si chiama Schulz. Succede che i libri scomparsi siano capaci di evocarne di nuovi, di spingere altri scrittori a scrivere, a riempire i vuoti che si sono creati. Ma il mestiere degli scrittori, come ha scritto una volta Mario Vargas Llosa, consiste nel «mentire con cognizione di causa». E non solo quando trasformano Bruno Schulz in un pesce. 
Per esempio siamo proprio sicuri che, come scrive Grossman, Il Messia sia sparito senza che nessuno l’abbia mai visto?
Intanto cerchiamo di appurare se quel libro sia effettivamente esistito. 
Bruno Schulz dà notizia che lo sta scrivendo in una serie di lettere a partire dal 1934 e fìno al 1939. Da queste lettere si capisce anche quanto fosse importante per lui, come fosse il Romanzo, davvero con la erre maiuscola, qualcosa che veniva dopo un periodo molto difficile anche per la rottura del suo fidanzamento con Jozefìna Szelinska che non era riuscita a convincerlo a lasciare il suo paese natale e andare a vivere con lei a Varsavia. Questo rapporto, fra l’altro, l’aveva portato a dubitare della sua appartenenza ebraica, fino a pensare di convertirsi al cattolicesimo (senza sapere che anche la sua fidanzata era una convertita). Probabilmente fu la fine di questa relazione a provocare un riavvicinamento alla cultura dei padri, alla cultura ebraica, nella quale la figura del Messia che deve ancora arrivare è centrale. 
Un altro elemento ci conferma che il romanzo esisteva ed era pressoché finito: Arthur Sandauer, un importante critico e intellettuale polacco che fu amico di Bruno Schulz, ha dichiarato che nel 1936, durante una vacanza, lo scrittore gli lesse l’inizio del Messia che suonava più o meno così: 

Sai, mi disse una mattina mia madre, è arrivato il Messia, è già nel villaggio di Sambor. 

Sambor era un paese molto vicino a Drohobycz. 
Dunque quel romanzo esisteva e di prove, se ce ne fosse bisogno, ne abbiamo anche altre. Innanzitutto possiamo leggerne due capitoli, Il libro e L’epoca geniale, che, forse perché compiuti e convincenti o forse perché espunti dal romanzo, furono inclusi da Bruno Schulz come racconti autonomi nella raccolta Il sanatorio all'insegna della clessidra. Questi due capitoli ci fanno capire la dimensione visionaria che il romanzo doveva avere, peraltro secondo le caratteristiche proprie anche della sua narrativa precedente. 
Poi ci sono i disegni, perché questo romanzo doveva essere un romanzo illustrato dallo stesso Schulz che, come ho già detto all'inizio, era un ottimo pittore."

Luca Tanchis